lunedì 26 ottobre 2015

Tre pacchi di pasta Rummo



Oggi ho comprato tre pacchi (quelli in foto) di pasta Rummo. Dalle mie parti non si trova, sono proprio dovuta andare a cercarla. 

È la mia piccola risposta ad una campagna di comunicazione che mi è molto piaciuta: l'immediata immagine di un maccherone con la didascalia: "a noi l'acqua non ci ha mia rammollito": non il pianto greco, la solita geremiade, sulle proprie disgrazie, ma la voglia di non farsi sommergere da nulla, alluvioni comprese. 

Bravi.


martedì 20 ottobre 2015

La felicità dell'attesa di Carmine Abate




«I tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa.»
Queste considerazioni di Sant’Agostino, messe in esergo, ben sintetizzano il senso profondo dell’ultimo libro di Carmine Abate, La felicità dell’attesa, edito da Mondadori, da qualche giorno in libreria.
La saga della famiglia Leto, il nonno Carmine, il figlio Jon, il nipote Carmine, la pronipote Lucy, attraversa tutto il Novecento e costituisce coscienza e anima del narratore, il nipote Carmine, che ripercorre le partenze e ritorni tra il piccolo paese arbëresh di Hora (l’antica Carfizi dove è nato l’autore) e l’America, i legami e gli strappi tra le generazioni, i tratti distinti e comuni che non si esauriscono nel colore dei capelli o nel taglio degli occhi ma affondano in un’intimità di sguardo che rende presente, insieme alla propria, anche la visione di chi l’ha preceduto e attende, insieme a chi seguirà, la felicità del futuro.
«Il primo a partire fu Carmine Leto, il nonno paterno di cui porto il nome» comincia così l’incontro tra la Calabria arbëresh povera e dignitosa, fortemente legata alla sua lingua e alle sue tradizioni – con la schiena dritta nonostante tutto – e l’America della lontananza e della fatica, ma anche della possibilità di mantenere la famiglia e costruire un futuro meno angusto.
Una scelta più che un destino, poi ripercorsa dal figlio maggiore, dopo il ritorno a Hora del padre e la sua fine violenta.
Tre volte Jon parte per gli States. La prima per vendetta alla ricerca degli uccisori del padre, la terza per lavoro, quando nella sua terra la campagna dà troppo poco e le parrere di zolfo producono sofferenze e lutti. La seconda, invece, per un amore che costituisce il nucleo più profondo e vero della sua vita. Jon, in America – oltre ad Andy Viripapa, che partito anche lui da Hora, è diventato un campione di bowling e diventa suo amico e suo mentore – incontra una donna dal neo felice che compare e scompare nella ruga del sorriso, Norma Jeanne, non ancora diventata Marilyn Monroe. I due si amano con una passione che, per lui, resterà assoluta ed eterna anche quando sposa la ragazza che corteggiava da ragazzino e che lo amava fin da bambina, mentre lei entra prepotentemente nell’immaginario maschile collettivo mondiale.
« (….) da quel giorno cominciai a capire un’altra verità sulla ferita dell’assenza. Mio padre non è stato assente come tanti padri emigranti solo perché era fisicamente lontano, suo malgrado, per motivi di lavoro. È stato assente perché in tutta la sua vita ha cercato invano di rielaborare il lutto per la morte del padre e del fratello, continuando nel frattempo a sperare di rivedere Norma, soffiando sulle braci vive del suo amore sotto la cenere, anche dopo la nascita di noi figli, anche dopo la scomparsa di Norma, che per non era morta veramente: a morire era stata Marilyn Monroe.»
Carmine Leto scava nei fatti di famiglia e nelle psicologie dei suoi parenti restituendo l’immagine forte del nonno Carmine, la bella e forte nonna americana, Shirley, la complessità emozionale del padre Jon e dello zio morto nella parrera, l’amore geloso della madre, l’irrequietezza della sorella Lina, col suo anelito alla libertà, la nipote Lucy che, dopo aver girato il mondo con la madre, torna al suo paese non solo a cercare le sue radici ma a mettercene di nuove.
Passato, presente e futuro (co)abitano nel suo racconto: la memoria come inestimabile ricchezza, l’attesa come capacità di rispondere con novità ai nuovi tempi (l’esigenza forte, per esempio, che i figli possano crescere studiati, raggiungendo la meta della laurea) e la narrazione come un prendersi cura della vita nel suo continuo fluire, far sì che la vita prevalga sulla morte, l’amore su ciò che, non essendo amore, è distruzione e rovina.
Libro dallo stile insieme disteso e incalzante, che contiene in sé, del tutto unitariamente, più tracce (la vicenda di Andy, uno arrivato, nel suo genere, ai vertici mondiali; i viaggi lungo le strade americane; il giallo della morte di nonno Carmine che si svolge per buona parte del testo; la storia d’un amore inimmaginabile), pacato nei toni e traboccante di sentimenti, di amori e di odi, di voglia di libertà.
Un libro pieno di odori, del profumo di Norma e di quelli della campagna, della cucina in cui si succedono Shirley e Annina, e della Family Tavern che, dopo l’America, rinasce ad Hora.
L’epopea saporitosa di una Calabria che non ha paura di partire e di tornare, che è orgogliosa delle sue radici e sa confrontarsi con il mondo e che fa della sua stessa sofferenza la forza di nuova speranza per il domani.

domenica 18 ottobre 2015

Il Saltozzoppo, la favola nera a lieto fine di Gioacchino Criaco




«Ci giurammo che nessuno avrebbe separato il nostro mondo. E poi arrivò la peste. Il vento nero soffiò forte, scurendo gli usci e spezzando le favole. L’epidemia si annunciò d’estate, con le facce sudate degli operai che piantavano paletti di legno nella terra soffice dei Giardini dell’Allaro e con il volto radioso del proprietario dell’azienda, attorniato da un nugolo di ingegneri e amici: sarebbe arrivato il progresso, una strada avrebbe tagliato i Giardini, la baia e l’intera costa. E, insieme a una moderna superstrada, sarebbero arrivati un’area di servizio e un centro commerciale.

Il viso bello e abbronzato di mio padre si rabbuiò, la sua allegria, le sue battute, le gite, tutto scomparve inghiottito dall’ansia. Nel paese, invece, dilagò il buonumore. Sarebbe arrivata una grande impresa del Nord, lavoro sicuro per tutti e paghe più alte.

Il padrone lo rinvennero morto, dentro la sua macchina crivellata dai pallettoni, prima che le pale meccaniche portassero la ferita innaturale che aprivano nella terra, dentro i Giardini dell’Allaro.
Le campane a morto della chiesa e i cortei funebri si succedettero con cadenza settimanale.

La peste andò dappertutto, girò in lungo e in largo ed entrò in parecchie delle case dei parenti di Agnese. E di quel male nero dovemmo accorgerci anche noi due.»

Il morbo – ovvero l'esplodere della violenza per accaparrarsi l’incipiente progresso,  capitolo nuovo degli odi antichi tra le famiglie dei Dominici, autoctoni abitanti delle rive dell’Allaro e i Therrime premiati con quelle terre per il loro appoggio agli Aragonesi – chiude violentemente l’adolescenza di Julien ed Agnese, giovani amanti di famiglie mai amiche. Anche quando, dopo la grande alluvione «tutti si cercarono un lavoro e buona parte dei figli dei monti finirono a fare i contadini alle dipendenze del padrone che possedeva per intero la vasta pianura che l’Allaro aveva formato, rubando la terra alla montagna. Silvestro Dominici e Alfonso Therrime furono gli unici per cui la corda elastica non poteva rompersi: andarono anch’essi a lavorare a salario, ma dentro continuarono a sentirsi dei proprietari defraudati e alla fine la contesa riprese, con Lupi e Aquile a lottare per il dono dell’Allaro in una guerra che per loro non avrebbe dovuto avere mai fine.»

Nati e vissuti per i primi anni della loro vita lontano dalla Calabria (i padri lavoravano fuori da emigrati, uno in Francia e l’altro a Milano), per Julien ed Agnese bambini la piana dell'Allaro appare come il regno magico d’una natura selvaggia e florida e il luogo delle relazioni calde e affettuose con nonni e parenti. Crescendo, terra e persone dell’Allaro diventano il loro mondo, lo spazio e il senso d’un amore, ostacolato da padri e nonni e sostenuto da madri e nonne per chiudere definitivamente col passato.

Uccisi i due padri dal morbo, i due ragazzi si trasferiscono a Milano. Lei a studiare, lui ospite di una zia. Per poco tempo, perché presto si assume il compito di vendicare la famiglia, accumulando delitti su delitti. Di sé dice che un ‘ndranghetista contro la ‘ndrangheta: non un affiliato in senso proprio, ma un interprete di un codice che, di contro alla purezza di lei, si autoalimenta della parte oscura del cuore suo e dei suoi avi. Seguono due decenni di carcere, che non annullano l’amore tra Julien e Agnese. All’uscita dal carcere, i due vengono coinvolti in una nuova trama criminosa che lega il debole fratello di Agnese, Alberto, alla mafia cinese (e non solo), producendo ancora violenze e non pochi morti.

Ma, alla fine, a prevalere, sarà la resistenza di Agnese: «Lana, seta, canapa, ginestra... la stanza dei telai era un composto di profumi: filati e colori che si mischiavano nell’aria per dare a quel posto un sentore che era solo il nostro. Di donna. Lì dentro avevo saputo e capito tante cose. Lì, le parole delle donne si intrecciavano, costruendo una scala di corda che si arrampicava attraverso gli anni passati, risaliva il tempo di decenni e poi di secoli. Lì avevo compreso quanto erano profonde le radici dell’odio fra i Dominici e i Therrime e quanto sarebbe stato difficile, se non impossibile, che l’amore fra me e Julien non finisse soffocato. Nonna Caterina mi aveva raccontato di molti amori che si erano incrociati fra i Therrime e i Dominici. Nessuno era finito in favola. “Resisti, Agnese.” Donna Vittoria, passandomi accanto per andar via, si fermò un attimo a carezzarmi i capelli; coprì i suoi col fazzolettone turchese e uscì insieme alle altre donne.»

È dalla scelta di vita di Agnese, con la nascita di due fratelli che portano i due nomi tradizionali delle famiglie Dominici e Therrime, Silvestro e Alfonso, che la storia antica comincia a svoltare: «La seta di Agnese ha in parte riempito le nuove piane che si sono formate attorno al fiume, grazie al mio lavoro e al bottino della rapina in Belgio. I Giardini risanati sono di nuovo magnifici, sembrano dispensarci il loro perdono attraverso un rigoglio di germogli, gemme, fioriture. È la mia ninfa l’artefice di tutto, lei ha dipanato fra le dita pazienti e cocciute il suo filo interminabile, proteggendolo con il miele e con la spada: ora che Alfonso e Silvestro sono diventati fratelli, nessuno più si scannerà su questa terra.»

Con Il Saltozoppo, appena pubblicato da Feltrinelli, Gioacchino Criaco continua la sua indagine sul lato oscuro della Calabria, cominciata con Anime nere e proseguita con Zefira e American taste e si conferma come uno dei protagonisti della narrativa contemporanea. Probabilmente il più “moderno” (una modernità che ben conosce anche il passato) e attuale tra i calabresi.

Lo fa, questa volta, con i toni di una favola nera ma a lieto fine, intrecciando accenti lirici (sul paesaggio, sulla lavorazione della seta, sulle feste di paese), vicende antiche dai toni mitici (i due eserciti di Ascruthia e Coraci che attraversano, l'un contro l'altro, le gole d’Aspromonte) e magici (la sposa che, per rifuggire un ingrato matrimonio, in quelle gole si getta da un ponte), analisi psicologiche (Julien, Agnese, Alberto si raccontano in prima persona), e sociologiche (i traffici di droga, l’emergere di gruppi e gruppetti di malaffare operanti all’ombra delle grandi organizzazioni criminali, la sostanziale incomprensione generale della complessità di fatti ed emozioni, di passato e di presente che sostanzia il fenomeno ‘ndrangheta).

Lo fa dando alle donne un ruolo di primo piano nella costruzione del bene, con toni e sfumature del tutto nuovi nella letteratura calabrese.

E lo fa utilizzando una lingua molto duttile, capace di scolpire i luoghi, cantare le tradizioni più belle, raccontare senza fronzoli i fatti, essere pronta ad una rielaborazione filmica. E, soprattutto, riconoscere l’orrore e sognare una normale vita d’amore.


sabato 17 ottobre 2015

Lettere meridiane di Francesco Bevilacqua





Lettere meridiane – Cento libri per conoscere la Calabria, il volume di Francesco Bevilacqua, recentemente pubblicato da Rubbettino – dopo un’interessante prima parte che ripercorre le modalità con cui la Calabria si è ed è stata percepita nel tempo e una seconda di apparato iconografico – si concentra sul commento di 100 testi calabresi. Testi letterari in prevalenza, ma anche storici, geografici, sociologici, antropologici: da Berto a De Martino, da Placanica a Gangemi, da Abate a Zanotti Bianco, da Criaco a Isnardi, da Alvaro a Teti.

«Il libro – spiega l’autore nella sua introduzione – vuol essere un aiuto per i lettori a districarsi nel mare della pubblicistica ce riguarda la regione e, nello stesso tempo, una sorta di guida ragionata (attraverso i commenti ai singoli libri proposti per la lettura alla comprensione della realtà e dei problemi della Calabria, che sono anche, in buona parte, i problemi del Sud Italia. (…) Cento volumi mi sono sembrati un numero sufficiente per una piccola bibliografia (o biblioteca) essenziale per la Calabria. Ovviamente non sostengo che per capire la Calabria sia necessario leggere tutti e cento i libri da me indicati e nemmeno che basta leggere proprio quelli. È certo però che bisogna leggerne almeno una parte, se davvero si vuole esprimere giudizi meditati. Parlo di “commenti” piuttosto che di recensioni, perché la mia intenzione è stata quella di raccontare la Calabria attraverso i libri, non invece quella di fare analisi critiche dei singoli titoli. (…) I libri commentati si susseguono secondo un ordine arbitrario ma non casuale (…) per collegare e concatenare libri appartenenti a generi diversi ma accumunati, magari, da un argomento o da riferimenti a temi specifici o anche, semplicemente da una labile intuizione. Il tutto – continua Bevilacqua – per rendere la lettura più simile a un cammino, a un percorso variegato, durante il quale si scorge ora un paesaggio vasto e aperto ora uno stretto sentiero, ora uno scorcio particolare.»

Una rassegna di carattere divulgativo; certo non esaustiva e, magari, qui e là, discutibile per l’assenza di taluni testi o per l’interpretazione dell’uno o dell’altro, ma di estremo interesse per vedere, in un unico colpo d’occhio, come la Calabria, nell’ultimo secolo, si è raccontata. Emerge una ricchezza che pochi conoscono e pochissimi immaginerebbero. La Calabria si è detta – si è parlata, per parafrasare Alvaro – molto di più di quanto di pensi e l’ha fatto con più forza e chiarezza e anche con maggiore valore letterario di quanto le venga riconosciuto.

Il libro di Bevilacqua è una buona occasione per ascoltarla e/o riascoltarla. Ma sul serio.

Dice Bevilacqua, dopo i (sentiti) ringraziamenti di rito: «Ma lasciatemi indicare anche chi non ringrazio. Sono i miei insegnanti di sempre, che non mi hanno mai raccontato nulla del mio paese, della Calabria, della loro storia, che non mi hanno mai parlato di Alvaro, di Levi, di Perri, di De Angelis, che non mi hanno mai detto nulla del Sud, che hanno fatto come se il Sud non esistesse, come se si trattasse di un’escrescenza accidentale della Nazione. Ma prima di loro – forse perfino incolpevoli e inconsapevoli – non ringrazio tutti coloro che hanno sistematicamente lasciato cancellare le culture, le identità, le civiltà locali in nome di una fraintesa modernità, depurando all’uopo i libri di storia e di letteratura, i testi e i programmi scolastici. Ecco, solo ora, posso dire di essermi finalmente emancipato dalla barbarie della negazione di un’appartenenza e di avere molti buoni motivi per dirmi grato di vivere in Calabria, nonostante tutto.»

La cura dei mali della Calabria, per Francesco Bevilacqua, consiste nella stessa cura. L’oikofilia, l’amore della casa comune, è il modo di combattere l’amnesia dei luoghi e della storia, per ritrovare un rapporto meno infelice con la natura e con la cultura.

I suoi cento libri sono una strada per conoscere, capire, amare la Calabria. Conoscerla, capirla, amarla, tanto da prendersene cura.


L’autore sarà tra gli animatori de I Giardini delle Esperidi, una manifestazione culturale ecosostenibile che si svolgerà tra Zagarise e la Sila dal 13 al 15 novembre.


mercoledì 7 ottobre 2015

Elegia d'autunno





di Vincent Van Gogh

Ti alzi appena un attimo dal computer e mescoli qualcosa sul fuoco per la cena della sera e giri qualcos’altro nel forno per il pranzo dell’indomani e torni di nuovo al computer sulle carte di scuola.

Fuori, il cielo è grigio e l’aria autunnale.

Ti riempie la consapevolezza dell’intimo tepore della cucina che racchiude, in un unico respiro, lavoro e casa.

Non più di una manciata di secondi. 

Ma di luminosa, raccolta, quiete del cuore.

lunedì 5 ottobre 2015

I bambini (e le ragazzine) sanno






Fine settimana bambino.

Il docufilm di Walter Veltroni, I bambini sanno. Sobrio, pulito, uno specchio in cui si riflettono pezzi di attuale società. Quel che prende di più è una terribile malinconia per l’eroica capacità dei bambini di accettare gli adulti, di reggere padri e madri con tutte le loro fragilità, errori e assurdità (magari mai diventati davvero grandi). Il loro stupore davanti al mare e il loro non stupore davanti al troppo male che gli tocca sopportare e il loro declinare (anche nonostante tutto) la parola futuro come speranza.


Anna, l’ultimo libro di Niccolò Ammaniti, una favola nera con una luce di speranza (tra l’altro collocata in Calabria).  Non dimenticherò questa protagonista ragazzina: «(Anna) … avvertiva che la vita è più forte di tutto. La vita non ci appartiene, ci attraversa. La sua vita era la medesima che spinge lo scarafaggio a zoppicare su due zampe quando è stato calpestato, la stessa che fa fuggire una serpe sotto i colpi della zappa tirandosi dietro le budella. Anna, nella sua inconsapevolezza, intuiva che tutti gli esseri di questo pianeta, dalle lumache alle rondini, uomini compresi, devono vivere. Questo è il nostro compito, questo è stato scritto nella nostra carne. Bisogna andare avanti senza guardare indietro, perché l’energia che ci pervade non possiamo controllarla, e anche disperati, menomati, ciechi continuiamo a nutrirci, a dormire, a nuotare contrastando il gorgo che ci tira giù.»

 ***

L’intervista ad Ermanno Olmi sull’ultimo numero della Lettura. Non conoscevo I quattro libri di lettura di Tolstoj e avrei voluto procurarmeli subito (ma in edizione con la prefazione del regista pare non ci siano da nessuna parte).