giovedì 31 gennaio 2013

Conchiglie


 
In Un'eredità di avorio e ambra, Edmund de Waal comincia la sua narrazione da un netsuke: uno di quei piccolissimi oggetti, frutto dell’antica e raffinata arte giapponese della modellazione di pezzettini di legno o d'avorio, che porta con sé alla riscoperta di una lunga storia, di famiglia e di società.

 

Anche nelle tasche dei miei giubbotti, nelle mie borse, tra i documenti che bisogna portarsi dietro, ci sono piccolissimi – che altri chiamerebbe oggetti.

 

Frutto dei secoli e bellezza per sempre; ancore al passato e scia del futuro; racconto di un luogo e respiro del mondo: le conchiglie, mie amiche e sorelle.

 

mercoledì 30 gennaio 2013

Fenomenologia della foemina montiana (non candidata)


 

Si può fare fenomenologia con un solo caso? Certo che no.

Se fossimo nel campo del serio, me ne guarderei bene. Ma –  visto che si tratta di considerazioni a margine di un articolo che non avrei mai letto se non fosse stato ripreso da una candidata per ironizzare con eleganza sul suo dis-onore, citato sarcasticamente nel testo – :

Che ci guadagna una persona come me – una donna comune, di età più avanzata che avanzante; che fa un lavoro faticoso, ma di scarso prestigio e non eccelsa remunerazione; che non ha né ambisce ad alcuna brillante vita di società; che non appartiene a nessun club, circolo, rete  di reale o supposto potere – a prendere una posizione filo-montiana (quando, tra l’altro, potrebbe tranquillamente e senza esporsi troppo stare, re-stare, so-stare, tra i possibili  “vincenti” elettorali)?

Una come me, se proprio vuol passarsi lo sfizio di dire qualcosa in più, se la può cavare con qualche battuta, di quelle che dicono e non dicono: come certi vestiti che non si potrebbe dire che scoprano, ma neppure, ad essere onesti, che coprano.

Se va oltre le battute, una come me, non ci guadagna proprio niente. Se non la consapevolezza d’aver provato – con la fatica che ciò sempre comporta – a rispettare la responsabilità che si ha nei confronti delle proprie idee.

martedì 29 gennaio 2013

La scuola va aperta 11 mesi l'anno? Sì



 
 
Il sondaggio immediatamente aperto dall’Huffington  Post sulle indiscrezioni che vogliono, nell’ Agenda Monti, la scuola aperta 11 mesi l’anno, dà al momento un 36,92% di sì, un 53, 59% di no e un 9, 49% di non so.
Sto in quel poco meno di 37% di favorevoli.
Chiunque mi conosca e abbia mai parlato con me di questi temi, sa che ne sono convinta da tempo.
 
Certo, bisogna strutturare bene il “come”, non pesare sugli stessi docenti che, se lavorano con coscienza e conoscenza, arrivano a giugno spremuti più di limoni, definire gli incentivi economici adeguati, progettare con cura le attività da svolgere nei mesi più caldi ecc. ecc.
 
 
Ma, la scuola, va tenuta aperta il più possibile. Non agendo solo sulla “quantità” dell’offerta formativa, bensì sulla “qualità”. (Tema importante, ci tornerò su).
 
 

Ps: Per anni, a Nisida abbiamo svolto due sessioni di esami, una a giugno  e una a luglio. Quando tale necessità non è stata più cogente, dopo gli esami di giugno, abbiamo mantenuto una presenza  oltre la fine ufficiale dell’anno scolastico, con specifici progetti. Per esempio, la presentazione de Il parco letterario, con nuove poesie e scritti dei ragazzi, è avvenuta il 12 luglio del 2012.

domenica 27 gennaio 2013

Mimmo Gangemi, ovvero la Calabria nell'Agenda letteraria italiana

 
 
«Lenzi s’era fatto attento. Capiva che le parole erano una sorta di cifrario, nascondevano informazioni». Come già nel precedente capitolo – Il giudice meschino pubblicato da Einaudi – anche ne Il patto del giudice che Garzanti manda da oggi in libreria, Alberto Lenzi – magistrato che «non valeva granché, ma i pochi casi in cui metteva impegno li portava a soluzione» – trova nelle «parabole» del capobastone Mico Rota il bandolo per districare l’intrigo di un’indagine complessa in cui s’intrecciano la rivolta dei neri a Rosarno, i traffici di droga nel porto di Gioia, i contrasti tra le famiglie ‘ndranghetiste della Piana.
 
Se ne La signora di Ellis Island Mimmo Gangemi si è fatto epico cantore della Calabria contadina ed emigrante del secolo scorso e con Il giudice meschino ha immesso una voce fortemente calabrese tra le più potenti e originali del noir italiano, con Il patto del giudice ci offre uno spaccato del presente calabrese, quello peggiore, dei traffici illeciti che prosperano mentre l’economia normale declina.
 
Indubbiamente un grande noir, Il patto del giudice è, ancora di più, un grande romanzo.
 
Un racconto sulla ndrangheta, sull’antidrangheta e sulla zona grigia di chi, pur senza appartenenze, respira comunque quell’aria e interpreta la vita secondo categorie da cui, qualunque sia il suo ruolo sociale, resta fortemente impregnato (per esempio, l’ominità, che fa vedere le donne come femmine). Una narrazione potente – quasi una sequenza di primi piani, un altorilievo che assorbe e riflette luce – su un mondo di cui molto si parla e di cui, in fondo, poco si conosce e che Gangemi ricostruisce fin nelle più minute sfumature.
 
Capace, l’autore – ed è virtù rara – di raccontare l’oggi, facendo lievitare la sua fantasia sui fatti e sul dibattito attuale (da leggere con cura, i dialoghi di alcuni personaggi nelle lunghe ore passate al “circolo”), trasformando la cronaca (quella reale e quella possibile) in letteratura.
 
Di quella che non gioca con se stessa in una sterile rincorsa di non si sa che, ma sa farsi carne e sangue del pensiero: urgenza di dirsi, da parte dello scrittore, che corrisponde all’urgenza di leggere da parte del lettore.
 
Potente il linguaggio, con un lessico e una sintassi che sembrano avere accumulato in sé tutta la storia e la tradizione calabrese per presentarsi ora nuove: vere e sanguigne.
 
Libro bellissimo, questo di Gangemi, che qualche piccolissima sforbiciata avrebbe reso perfetto.
 
 
Questa la mia recensione su Zoomsud dell'ultimo libro di Mimmo Gangemi http://www.zoomsud.it/commenti/45535-il-patto-del-giudice-di-mimmo-gangemi.html 
Grazie a lui e ad alcuni altri autori, la Calabria è attualmente a pieno titolo nell' Agenda letteraria italiana.

martedì 22 gennaio 2013

Guardando "Oltre la siepe"



All'inizio ufficiale della campagna elettorale della lista Monti, sul palco, al Kilometrorosso di Bergamo, c'era anche Katia Stancato.
 
Non la conosco personalmente, ma mi è sembrato che ne emergesse la stessa immagine garbata e sanguigna, "tosta e per bene", che occhieggiava dal suo Oltre la siepe che ho avuto modo di recensire così, per Zoomsud, esattamente 11 mesi fa, il 22 febbraio del 2012:

Un libro come una boccata d’aria pulita. “Oltre la siepe” di Katia Stancato, edito da Rubbettino, raccoglie sette storie di cui sono protagonisti uomini e donne, preti e laici, calabresi di nascita e/o di scelta che, guardando al di là del confine che, nel termine leopardiano, limita la nostra visione, costruiscono, oltre la paura e gli stereotipi, ragioni di speranza.

Proprio in quel campo, il lavoro, che sembra o non esistere o essere sotto la cappa di una diffusa illegalità oppure, sic et simpliciter, colonizzato dalla ‘ndrangheta. Da mons. Bregantini, intorno a cui la Locride ha avviato l’esperienza cooperativa, alla bergamasca Giusy Brignole che, a Paola, ha valorizzato un terreno rimasto abbandonato per anni, scorrono le fatiche e i sorrisi, i problemi e le emozioni di tanti piccoli “eroi del quotidiano”, che, seguendo la bussola del cristianesimo, hanno provato e provano a creare valore sociale ed economico, trovando anche, nella crescita comune, il loro spicchio di umana felicità.

“Uomini e donne di questo Mezzogiorno – dice Katia Stancato – campioni di corsa a ostacoli, che si allenano quotidianamente. Faticano il doppio, triplo, per realizzare concretamente un progetto professionale e di vita. Dispongono di una grande ricchezza soggettiva e oggettiva che, quando è utilizzata con coraggio, intelligenza e sensibilità, produce valore. In quindici anni di lavoro al servizio di Confcooperative e poi in quest’ultimo anno da Portavoce del Forum del Terzo Settore, ho fatto i conti con grandi aspettative e visto nascere tanti progetti, curandone la realizzazione e condividendone successi e delusioni. In quest’avventura, ho incontrato centinaia di persone e scoperto un giacimento di storie che aspettano di essere portate alla luce”. Perché “il racconto non è la soluzione ma rende visibile l’esempio”.

Dal progetto Policoro al Goel, dal marchio “Cangiari”, ai quattrocento ettari di “riso del Vescovo”: tante storie di innovazione e di creatività, di recupero delle potenzialità della tradizione innestate nelle modalità dell’economia contemporanea. Si fanno belle scoperte, in questo libro. Magari – non né scritto da nessuna parte, ma ne viene di conseguenza – anche i calabresi fisicamente lontani dalla Calabria possono meglio indirizzare alcuni loro acquisti. Ma quello che resta di più dalla lettura di Oltre la siepe, sono i volti di persone dalla forza gentile, che non ignorano la drammaticità della situazione, ma vogliono trarre fuori la bellezza presente anche lì dove sembrano dominare solo disagio e difficoltà: “Sono in grado, infatti, di proporre un modello di economia diverso, in cui ricchezza materiale e morale si legano insieme. Noi, sembrano dire, operiamo per un’economia in cui le persone non sono ingranaggi ma valori di un percorso che produce soddisfazione e benessere sociale, vera ricchezza”.
 
Immagino che, dopo la sua salita in politica, la domanda su come, dai germi nuovi e positivi sparsi qui e là, si possa (ri)costruire una Calabria all'altezza delle attuali sfide europee attuali sia diventata per Katia Stancato molto più stringente
 


lunedì 21 gennaio 2013

Quando la "politica" supera la "letteratura"




Sono stati in tanti, in questi ultimi anni, a rilevare - giustamente -la fiorente primavera letteraria di Napoli e della Calabria, due luoghi, peraltro, privilegiati per la mia mente e il mio cuore.

Sono tra i fortunati che hanno avuto modo di conoscere alcuni scrittori calabresi e napoletani e, di conseguenza, di sapere quanto valgono: come autori e come persone.

Sono un po’ preoccupata per loro, adesso.
 
Me li immagino, proprio ora, incavolati neri: incapaci di farsene una ragione.
 
Nessuno, neppure i giallisti più inventivi e brillanti  era arrivato ad immaginare, come titolano i giornali online da qualche ora, un candidato escluso dalle prossime elezioni, che scappa con le liste elettorali…

 

domenica 20 gennaio 2013

Jane Austen: Mai nessuna come lei


 
 
“Ma di che cosa non sono capaci le donne calabresi? Se fossi al governo le nominerei, in massa, cavalieresse del lavoro (non è una ingiustizia che tale onorificenza sia riservata ai soli uomini?), così come un re di Napoli, per i suoi fini politici, nominò baroni tutti i crotonesi e tutti i cittadini di Tropea cavalieri…”
 
Così in Donne e industrie in provincia di Reggio Calabria (1907) Clelia Romano Pellicano, marchesa di Gioiosa, calabrese non di nascita ma di scelta (matrimoniale), una delle prime giornaliste italiane, autrice di romanzi e racconti, grande fautrice del voto e del lavoro delle donne.
 
Torno ad occuparmi di lei (avevo trovato affascinanti, tempo fa, le sue descrizioni delle donne impegnate alla produzione della seta) dopo che, su fb, mi è stato fatto osservare, in seguito ad un mio pezzo sul prossimo (28 gennaio)  duecentesimo anniversario di Orgoglio e pregiudizio che, è vero che la Calabria non ha prodotto una Jane Austen, ma che pure qualche voce “letteraria” al femminile c’è stata anche nel Sud d’Italia (forse non è inutile chiarire che il discorso riguarda non l’epoca contemporanea, ma quella moderna, tra la metà del Settecento e l’inizio del Novecento).
 
Dato a Clelia quanto le spetta, resta il fatto che zia Jane – “good quiet aunt Jane”, secondo il nipote Edward Austen Leigh – resta “l’artista più perfetta tra le donne”. Incommensurabile. Infinita.
 
Quella che leggi e rileggi e ti chiedi com’è riuscita a fare dei suoi “piccoli ricami su una tela d’avorio di pochi centimetri” qualcosa che, mutati profondamente società e ruolo delle donne, continua ad essere la voce che più di tutte piace ascoltare.
 
 
Rimando ai seguenti articoli su Zoomsud:
 
 

http://www.zoomsud.it/commenti/7876-la-marchesa-di-gioiosa-un-po-socialista-femminista-convinta.html
 

 

 

sabato 19 gennaio 2013

La nostra America

 
 
 
Dialogo immaginario per una storia vera.
 
Lui: Quando sono nato, i primi di settembre dell’ultimo anno dell’Ottocento, mia madre si ammalò. Rimase per anni in ospedale, nel fondo di un letto. Morì che ero ancora piccolo, non me la ricordo. Avevo due fratelli e due sorelle.
 
Lei: Avevamo pochi giorni di differenza, sono nata lo stesso mese di settembre. Mia madre aveva fame e subito si alzò, salì su un albero e si saziò di more. Ero l’ultima di sette sorelle. Dopo di me nacque un maschio, ma se lo portò via il terremoto dell’otto.
 
Lui: Li sento ancora i cani che abbaiavano a morte, e dovunque un tanfo di morte infestava l’aria. I cadaveri li portavano via con le carriole.
 
Lei: I miei erano coloni, lavoravano la terra d’una gran signora che abitava in città. Eravamo poveri ma a noi sorelle non ci mancava niente. Mio padre ci teneva, alle più grandi comprò pure lo scialle per la messa.
 
Lui: Camminavo scalzo, avevo una sola camicia. Non mi ricordo d’essermi mai saziato, forse qualche vigilia di Natale e Capodanno; avevo sempre fame. Avevamo un pezzo di terra ma non era granché. A uno ad uno i miei fratelli più grandi se ne partirono per l’America.
 
Lei: Andai a scuola solo quindici giorni, mio padre diceva che le figlie femmine non dovevano imparare perché se no, da grandi, potevano scrivere di nascosto ai fidanzati. Aiutavo in campagna. Non avevo ancora dieci anni che cominciai a ricamare le lenzuola della mia dote.
 
Lui: Io sono andato a scuola per tre mesi. le parole che imparai le scrivevo e riscrivevo con un ramo sulla sabbia quando stavo in campagna a guardare le pecore. Mi chiamarono per la guerra che non avevo diciotto anni, tra i bersaglieri. Al fronte, una bomba mi scoppiò davanti. Il medico disse che m’ero ammalato di cuore, di mettermi nelle retrovie. Mi fecero fare il postino; portavo le lettere ai soldati feriti, al Fatebenefratelli, a Milano e così imparai a leggere.
 
Lei: Andai a servizio. Dal barone, la domenica, bollivano una gallina vecchia; i giorni feriali, fave e fagioli, come tutti, ma c’era pure il secondo, un peperone arrostito, due patate fritte.
 
Lui: Dopo la guerra, tornai a lavorare alla fornace. Impastavo mattoni dodici ore al giorno per quindici soldi, una settimana di fatica per pagare un chilo di pasta. Davanti alla fornace c’era una sarta, che mi diceva sempre: “Voi vi dovete sposare quella bella giovane, quella che chiamano ‘a passera. Andate alla messa delle undici, non vi potete sbagliare, è la più bella”.
 
Lei: Ero bella, sì; nessuna aveva la mia carnagione, i miei capelli. A casa mia arrivavano ambasciate di uomini che avevano un impiego, pure un maresciallo mi chiese in moglie. Ma pure a me, la comare sarta mi diceva sempre: “Vedete quel giovane? E’ lui che vi dovete sposare”.
 
Lui: Andai alla messa delle undici, la guardavo di lontano e il cuore cominciò a battere, a battere. Il giorno dopo l’aspettai alla fontana e quando scese a prendere l’acqua le chiesi se mi voleva sposare.
Lei mi guardò: “Non è bello che mi prendi in giro e poi ne sposi un’altra”. “No, ti prometto che ti sposo”. Mio padre non voleva, diceva: “Loro sono coloni, noi proprietari”. “Ma che proprietari… Non vedete che la terra che abbiamo non serve a niente, che non riusciamo neanche a camparci? Se mi date il consenso, bene, altrimenti me la sposo lo stesso, che sono maggiorenne”.
 
Lei: Ci sposammo che era novembre. Andammo a piedi prima in municipio e poi in chiesa. A casa ci fu una festa, con pane duro, capicollo, pecorino e vino nuovo frizzante. Suo fratello, ch’era tornato dall’America con un sacco di soldi, ci diede cento lire; altre cento mio compare e venti un cugino. Troppo pochi per pagare i debiti. Lui ne aveva fatti tanti, più di mille e duecento lire per comprarmi l’oro, l’anello, la collana e gli orecchini e l’abito nero da cerimonia; quello bianco me l’aveva comprato mio padre. Mio suocero se ne andò a stare con una figlia e ci lasciò la casa. Dentro con c’era niente. Il giorno dopo le nozze andai a cercare due mattoni, un po’ di legna e mi prestai la pentola dalla cognata per bollire un po’ di pasta.
 
Lui: Cambiai lavoro, perché il padrone non mi voleva dare neppure una lira in più e non mi voleva mettere le marche. Lei faceva economia, mangiava pane e olive, raccoglieva i soldi e li nascondeva in un fazzoletto. Un giorno comprai un bel pesce di prima qualità per cinque soldi. Iniziò a borbottare: “Che l’hai preso a fare, l’hai pagato troppo. Restituiscilo e fatti tornare i soldi. Digli che sono incinta, che l’odore del pesce mi rivolta lo stomaco”.
 
Lei: Pagammo i debiti e si comprò pure qualche camicia, che, quando ci sposammo io avevo portato un baule di biancheria, ma lui aveva solo il vestito che aveva addosso. Ma quando nacque mio figlio – un colosso di quattro chili – ebbi la febbre per quaranta giorni, deliravo, mi pareva che mai avrei rimesso piede a terra. Il medico si prese cinque lire e i debiti ricominciarono. Ma a mio figlio non doveva mancare niente. Ogni settimana scendevo alla bottega a comprargli i biscotti e la bottegaia mi diceva: “Li compra solo la baronessa per la figlia”.
 
Lui: Poi nacque la bambina. Quant’era bella, bianca e rosea, con gli occhi grandi. Cresceva a vista d’occhio e più cresceva e più si faceva bella.
 
Lei: Ma una mattina da rosa che era si fece quasi nera. Il medico ci mandò in città da uno specialista, poi da un altro. Allargavano le braccia, ordinavano medicine. Ci volevano tanti soldi.
 
Lui: Mi prese la smania di andare in America. Mi prestai duemila lire e partii. Ma le frontiere erano chiuse e imbarcarsi su un piroscafo per l’America non era facile. Arrivai in Francia, lavoravo qui e là come potevo e cercai di mandare qualche soldo a casa. Andai a lavorare in Belgio, nelle miniere, poi in Spagna e in Portogallo e di nuovo in Francia e poi in Olanda. Finalmente partii. Alcuni amici marinai mi nascosero nella stiva del piroscafo che trasportava carbone e lì rimasi acquattato quaranta giorni. Mi portavano da mangiare di nascosto. Quando sbarcammo e respirai di nuovo aria, mi sentii subito male, svenni.
 
Lei: Avevo il cuore nero e lavoravo a più non posso. Di giorno raccoglievo le foglie dei gelsi, perché qui una volta si allevavano i bachi da seta: mettevo seduta a terra la bambina e dicevo al figlio di giocarle, mentre salivo sugli alberi. Di notte lavoravo coperte all’uncinetto, coperte da dote, ma mi pagavano poco, due pugni di fave, di fagioli. D’inverno lavoravo a mezzo letto, per tenere almeno le gambe al caldo; d’estate, fuori la porta, alla luce della luna, per non consumare il lume. Ogni settimana portavo la bambina dal medico, più di dieci chilometri a piedi. Ma a poco a poco cominciai a pagare i suoi debiti.
Lui: Avevo impiegato sedici mesi ad arrivare in America, ma non era finita. Ero entrato illegalmente, non avevo documenti validi, la polizia poteva riprendermi e rispedirmi indietro.
Lei: Morì la bambina, Dio l’abbia in gloria, e il figlio cresceva grande e grosso. Lo facevo mangiare. Preparavo la tavola e mi sedevo con lui, con un coltello vicino e con quello lo minacciavo di mangiare. C’era chi mi prendeva in giro: “V’ha lasciata sola vostro marito, ha trovato un’altra femmina”. Io tiravo per la mia strada, pensavo: le altre sono le altre, io sono sua moglie e da me tornerà.
Lui: Andai a vivere da mia sorella, pagavo il letto e il mangiare a mio cognato; lavoravo come potevo.
Lei: Ero rimasta sola col bambino. Attaccata alla nostra casa, da un lato c’era la casa di due suoi fratelli e, dall’altro, quella dei suoi cugini. Una cognata, mentre ero a lavorare in campagna, fece rubare la mia cassa di biancheria e il mio oro di nozze. La portarono in galera, ma la scagionai, perché non era cattiva e l’aveva fatto per miseria. La cugina, ogni mezzogiorno, di nascosto dal marito e dai figli, veniva a lasciarmi sulla tavola un piatto caldo.
 
Lui: Ebbi una lite con un tizio: mi offese, lo presi a botte, mi denunciò. Andai via da mia sorella, cambiai cognome. La polizia mi cercava, continuavo a scappare di qua e di là. Non avevo un lavoro fisso, certe volte non avevo niente da mangiare. Avevo paura e non le scrissi più.
 
Lei: Ormai il figlio andava a scuola in città con la sua bicicletta e tornava la sera. Una sera tornò a casa pallido, lui che spandeva salute. “Che hai, che ti è successo?” “Niente, ma’, che mi vedi”. “Qualcosa hai”. “Un mio compagno è venuto a scuola col vocabolario, un libro grande con tutti i nomi”. “E tu vuoi questo libro?”. Lui non rispondeva, si vergognava di dirmi che costava due lire e mezzo, ma il libro lo voleva. Ho venduto la mia collana e lo comprò.
 
Lui: Non voglio ricordare. Ero perso, in un altro mondo, senza padre, senza moglie, senza figli. Scappavo. Non so neppure io come rimasi vivo.
 
Lei: Scoppiò un’altra guerra, il figlio venne chiamato soldato. Restai sola. Quando pure da noi cominciarono i bombardamenti, tutti i parenti si rifugiarono chi da una parte chi dall’altra. Mi presi il baule della biancheria e salii verso la collina dove si erano rifugiati un suo fratello con la moglie che poi non era neppure sua moglie e certe volte pareva uscita dall’inferno per quant’era cattiva. Di notte dormivo con loro e di giorno scendevo a casa dove c’era la capra e tante cose da fare. Una sera quella strega mi disse che non voleva che venisse sua sorella perché c’era poco pane e di pane ce n’era, invece, in abbondanza. Passai la notte a piangere, pensavo: “Se dice questo di sua sorella, figuriamoci di me che sono un’estranea”. E la sera dopo me ne rimasi a casa mia.
 
Lui: La guerra fu una manna per me. La polizia non mi cercava più come immigrato clandestino, ricominciai a vivere alla luce del sole.
 
Lei: Una mattina di settembre il mare si riempì di navi. Sbarcarono gli americani, bianchi e neri, inglesi e canadesi. Portarono ogni ben di Dio: scatolette di carne, latte in polvere, pasta. Cominciarono ad arrivare i poveretti di Cassino, i soldati scappati dal Nord. Il figlio non tornò, lo piansi morto.
 
Lui: Trovai lavoro in una fabbrica di materiale bellico, mi davano meno degli altri operai, ma era lo stesso una buona paga e ricominciai a togliermi i debiti.
 
Lei: Come Dio volle, la guerra finì davvero. I parenti tornarono tutti nelle loro case, pure quelli che erano andati soldati tornarono vivi, sia lodato Dio. Arrivò una lettera del figlio, che erano quasi due anni che non ne sapevo niente. L’otto settembre dalla caserma di Roma era scappato a Nord, era stato con i partigiani, stava bene, sarebbe tornato presto, diceva. Poi arrivò pure un’altra lettera: erano più di venti anni che non ne sapevo niente, mi si annebbiarono gli occhi, non vedevo che c’era scritto.
 
Lui: Arrivò anche la sua lettera. Avevo un figlio grande, quasi fidanzato. Bambino me l’ero mai scordato e uomo non riuscivo a immaginarmelo.
 
Lei: Ci vollero altri sei anni per rivederci. Tutto al paese stava cambiando. Arrivò la luce anche da noi e la sera si poteva lavorare con la lampadina che era un piacere. Portarono pure l’acqua. Per cinquanta anni ero andata a prenderla alla fontana e a lavare nei torrenti, ora si poteva lavare stando a casa.
 
Lui: Guadagnavo bene. Prima di tornare, volevo pagare tutti i debiti e portare pure qualche soldo. Andavo a scuola serale per imparare l’americano, volevo prendere la cittadinanza.
 
Lei: Quando scese dal piroscafo, mi prese un colpo al cuore; non aveva più i capelli neri e le rughe gli circondavano gli occhi. Anche i miei capelli ingrigivano e la carne alle braccia pendeva inflaccidita. Il figlio lo abbracciò: “Finalmente ti conosco”.
 
Lui: Prendemmo un treno che sembrava non arrivare più. Era autunno e il frantoio era in funzione. Mi venne voglia di un biscotto di pane caldo, condito con olio, sale e pepe.
 
Lei: Una vita era passata dall’ultima nostra notte di nozze. Quasi mi spaventai a non essere più sola nel mio letto. Mi vergognai a spogliarmi, come la prima volta. Era mio marito, era un estraneo, era mio marito.
 
Lui: Al paese non c’era lavoro per me. In America, se uno ne perdevo, due ne trovavo. Adesso che era cittadino, lei poteva venire con me. Volevo far venire pure il figlio, ma lui diceva che il lavoro ce l’aveva, e sicuro, e voleva sposarsi e vivere dov’era cresciuto.
 
Lei: Per ventisei anni ero rimasta senza marito. Dovetti lasciare mio figlio e mia madre, bianca ormai di capelli, magra di vecchiaia. Il piroscafo era lento, mi rivoltava lo stomaco vedere sempre cielo e mare, vomitavo ma continuavo a mangiare quello che ci portavano, che era un peccato sprecare quella grazia di Dio: non avevo mai visto tavole così.
 
Lui: Andammo ad abitare vicino ai miei parenti, c’erano pure tanti compari e comari. Non ci si poteva lamentare, la compagnia non mancava.
 
Lei: Lì parlavano come noi, non c’era bisogno di sapere l’americano. Trovai lavoro alla lavanderia dell’ospedale. Mi piaceva guadagnare.
 
Lui: Tornai in fabbrica. Mi sentivo sempre male, alla testa, allo stomaco. Ebbi due operazioni in poco tempo. Mi aprirono lo stomaco, non trovarono niente, richiusero.
 
Lei: Uscivo presto la mattina, c’era la neve, non l’avevo mai vista. Per risparmiare i soldi del pullman me ne andavo a piedi, due chilometri all’andata, due al ritorno, con la paura di cadere sul ghiaccio. Gli lasciavo tutto cucinato e mi raccomandavo alla comare che andasse a vedere se aveva bisogno di qualche cosa.
 
Lui: Trovai lavoro come giardiniere, era un lavoro leggero, mi piaceva. Frequentavo le case dei ricchi, case grandi, col garage, e due, tre macchine, una per il padrone, una per la moglie e una per i figli.
 
Lei: I suoi padroni mi tenevano in palmo di mano. La domenica cucinavo per loro grandi pentoloni di ragù, carne e polpette grandi come uova, fritte nell’olio bollente e poi buttate nel sugo. Loro mangiavano scatolette e roba comprata, le mogli non cucinavano, la nostra cucina gli piaceva. Erano contenti, pagavano bene.
 
Lui: Mi trattavano bene, si fidavano. Sceglievo io i fiori da piantare e dove piantarli e quali disegni formare nelle aiuole e dove far crescere i recinti d’erbe. A casa niente ci mancava, avevamo la luce e l’acqua, la cucina col forno e la televisione. Quand’ero malato, passavo la giornata cambiando canale.
 
Lei: Litigavamo perché lui spendeva e io risparmiavo ed ero tirata sul mangiare e nascondevo i dollari nel materasso. Solo i dollari mi piacevano dell’America, la gente no. I figli se ne andavano a vivere fuori casa e quando stavano con i genitori pagavano il mangiare e il dormire, le ragazze andavano a ballare la sera. Volevo tornare al mio paese.
 
Lui: Io stavo bene in America, l’America m’aveva tolto le pezze dal sedere. Di mio figlio mi bastava sapere che stava bene, l’avevo rivisto che aveva quasi trenta anni, era un uomo fatto, non avevamo molto da dirci.
 
Lei: Partimmo subito dopo le elezioni, io non ero cittadina, ma lui sì e votò per Kennedy. Quando arrivammo al porto di Napoli, sulla banchina c’erano il figlio, la nuora e la nipote: portava il nome di nostra figlia, mi sembrò di rivederla.
 
Lui: Il figlio mi prese da parte: “La nonna è in agonia, dobbiamo tornare al paese col primo treno”.
 
Lei: Salimmo lungo la fiumara ch’era ancora notte. Tutto era uguale, fuori: il pergolato, il gallinaio, i colombi, l’albero di more bianche. Mia madre chiamò due, tre volte mentre entravo; le mie sorelle scoppiarono a piangere: mia madre era morta. Mi raccontarono, dopo, che diceva sempre: “Signore, fatemi la grazia di rivederla e quando metterà piede sullo scalino della porta fatemi morire in pace”. E così mi vestii di nero lo stesso giorno che tornai al paese.
Pubblicato su Zoomsud, domenica 13 gennaio, Giornata dei Migranti http://www.zoomsud.it/commenti/45883-calabria-sinonimo-di-emigrazione.html

martedì 15 gennaio 2013

Quello che ci serve davvero

 
 
“Servono insegnanti, educatori, persone in grado di spiegare la differenza tra una battuta e una falsità. Tra un ladro mafioso e un ladro per fame. Tra uno spacciatore e un drogato. Tra un clandestino e uno scafista. Tra un ambizioso e un arrivista. Serve chi insegni ai bambini che nella vita c'è il lavoro e c'è la conoscenza, esistono la natura e i colori, la terra e il sole. Serve insomma restituire il piacere delle priorità e delle differenze. Servono mille maestri nelle scuole elementari, più utili di dieci premi Nobel in parlamento. Penso che sia importante spiegare che costruire non significa comprare. Che parlare non significa ripetere. Io penso che c'è tanto lavoro da fare per tentare di essere migliori di quella merda che ci viene riproposta in tutte le salse e che è la massificazione del pensiero”.
Peppe Baldessarro.

C’è necessità – e tanta – di lavoro. E c’è necessità di gente (della scuola, della cultura, della comunicazione, dello spettacolo) che accenda la voglia di capire, la capacità di pensare, di distinguere il bene dal male, l’essenziale dall’effimero, ciò che conta davvero da ciò che può starci o non starci.

Più necessari del pane sono i maestri elementari buoni e bravi, soprattutto, in alcune zone del paese e gli educatori altrettanto buoni e bravi dovunque si trovino (nelle palestre, negli oratori, nelle scuole medie e superiori). E quelli che fanno una tv che non distrugge cuore e cervello. E chi, a ogni titolo, innesca reti positive.

La politica – il mondo dei partiti – e la “società civile” – che quei partiti vota – deve cambiare parecchio perché l’aria che si respira favorisca la diffusione di un pensiero libero, intelligente e sensibile: all’altezza della complessità delle sfide che dobbiamo quotidianamente affrontare.
 

Ho appena espresso (ore 7.15 del 16 gennaio) una idea simile sull'Agenda Monti:

http://www.agenda-monti.it/proposals/1229

 
 

venerdì 11 gennaio 2013

L'estetica della politica



Le idee, certo. La visione delle cose. Le scelte.

Che, oggi, sono soprattutto quelle economiche. Perché siamo arrivati ad un punto in cui l’economia deve reinventare se stessa, trovare nuove produzioni, ovvero nuove forme di lavoro, di uso delle risorse, di consumo responsabile. Ricominciare a crescere, in Occidente, in un mondo globale, dove tutti, giustamente, vogliono la loro parte di torta: un problema epocale, intorno a cui si gioca il resto, tutto il resto.

Faccio parte dei tantissimi che sulle scelte economiche globali possono convenire o essere contrari, dire di sì, forse, no, ma solo affidandosi al giudizio di quegli altri, pochi, che, su queste materie, hanno competenze reali tali da poter prefigurare gli scenari futuri che ogni singola scelta del presente comporta.

Ma c’è una scelta che pertiene a tutti: quella estetica.
 
Ciò che inchioda al peggio del passato e del presente, il volgare, è irrimediabilmente brutto e ciò che allarga il respiro e lo sguardo, essendo in se stesso futuro, ovvero proiezione costruttiva al meglio possibile (giacché niente più del meglio possibile è il contenuto della politica), è decisamente bello.

Sobrietà, competenza, equilibrio, pacatezza, intelligenza fanno parte, per me, della politica bella.
 
Di quella che, contenendo al suo centro un nucleo di speranza e di domani, è, insieme, seria ed elegante, austera e felice.

E può (addirittura) far battere il cuore.


ps (relativo alla foto): Poiché non c'è uomo, né donna, perfetto/a, avere certi sguardi accanto equivalgono ad un'ulteriore garanzia (per chi si appresta a votare).
 
 

 

giovedì 10 gennaio 2013

Non sono stata candidata. E mi dispiace


 
 
Niente, anche oggi nessuno mi ha candidato e io non posso dire di “accettare l'esaltante sfida” (con seggio sicuro). Come anche altri, Pierluigi Battista ha disseminato molti ironici tweet sui candidati alle prossime elezioni.

Ora, senza dilungarci nell’analisi, detto semplicemente che, nelle varie liste, ci sono in circolazione anche nomi che fanno rabbrividire e/o lasciano interdetti/stupiti/ecc.ecc. e, magari, mancano nomi che, al contrario, sarebbero sembrati pertinenti – un filo lieve lieve di dispiacere di non essere stata contattata da alcuno per candidarmi, in fondo in fondo, potrei averlo anch’io.

Non ho alcuna aspirazione all’onorevolato, ma essere messa in lista (la lista che piaccia a me, è chiaro), ben oltre il ventesimo posto, senza alcuna possibilità di essere eletta, in quelle posizioni di mero “servizio” ad un partito, ad un movimento, ad un’idea di società: beh, stavolta, questo segno destinato a restare solo un segno l’avrei accolto come un grande onore e assunto come un ulteriore impegno di responsabilità civile.

Perché – mentre la politica si è ampiamente meritata in questi ultimi decenni ridicolo e maledizioni – alla Politica, quella fatta di “servizio” al Paese, mettendoci la faccia e non ricavandone niente di personale, io credo.

domenica 6 gennaio 2013

Al paradiso delle signore



Dopo averne visto, nei mesi scorsi, la libera versione della BBC, il primo libro letto, nel 2013,  solo per piacere  è  stato Al paradiso dlle signore di E. Zola.

L'autore diceva di volerne fare "il poema dell'attività moderna. In una parola, andare con il secolo, esprimere il secolo che è un secolo di azione e conquista" e ha raggiunto il suo scopo con un testo areoso, ottimista, che racconta il ribollente inizio di un grande magazzino per signore.

Ma è anche - forse, oggi, soprattutto - una storia d'amore e un gran bel libro sulle donne.


Proposte per l'Agenda Monti



Ho scritto due proposte su www.peragendamonti.it  su due argomenti che mi stanno molto a cuore.

Il primo su come prevenire la cosiddetta "devianza" di fin troppi ragazzi napoletani (ma vale i ragazzi meridionali di zone considerate particolarmente "a rischio"):

http://www.peragendamonti.it/proposals/675

Mi piacerebbe, però, che, nel contempo, ci si occupasse seriamente di valorizzare le "eccellenze" che sono tante e troppo sacrificate, a scuola, in una "medietà" contropoducente.


La seconda sul luogo che più amo, il territorio tra Reggio Calabria e Stilo: dove potrebbero abitare "dei" e, invece, la vita arranca:

http://www.peragendamonti.it/proposals/825


Sull'attuale, pessima, situazione della periferia reggina rimando a questo mio pezzo su Zoomsud:

http://www.zoomsud.it/commenti/45423-reggio-se-non-ci-si-accorge-piu-della-bellezza.html