sabato 24 novembre 2012

Pietre di sapone




Che da una madeleine inzuppata nasca un capolavoro letterario, non è che capiti tutti i giorni. Ma chi non conosce quella particolare emozione che ci prende all’improvviso per un ricordo inatteso scattato ad un suono, un colore, un’immagine che, tante altre volte, non ci hanno suscitato sensazioni così intime e intense?

Basta un niente, talvolta, e quel piccolo sasso crea in noi una spirale di onde che ci traferiscono in altri tempi, in altri luoghi.
 
Leggo, su fb, un commento di Mimma Miceli – “ieri nel programma della Panicucci, si parlava dello smaltimento degli oli usati, non sapevano dove buttarlo, ma dico io, non vi viene in mente che si può saponificare? e il problema è risolto!!!!!!!!!” – e un’immagine s'impossessa della mia mente.
 
Ecco, siamo nella rua della mia prima infanzia, nel cortile della mia fanciullezza e in quello della prima gioventù, con al centro un grande calderone, ‘a ‘caddara, e una donna di famiglia – madre, nonna, zia – rossa in faccia, i capelli un po’ scarmigliati, le maniche abbondantemente arrotolate, che rimesta con un grande bastone e di tanto in tanto s’asciuga il sudore con un lembo del grembiule.
 
Per ogni litro d’olio, quello rimasto dai fritti e la morga, che si depositava nei contenitori, o, ancor meglio, per ogni chilo di sugna, cinque litri d’acqua, la soda e tanto lavoro di gomito.
 
All’ebollizione, quando il miscuglio era ormai una marmellata, un passato di pomodori, si versava in lande rettangolari piuttosto alte, usando poi una apposita seghetta per tagliarlo.
 
I pezzi, di solito piuttosto irregolari, venivano lasciati ad asciugare e poi conservati in sacchetti di tela, pronti all’uso. Bruni di colore, erano decisamente meno gradevoli alla vista del “sapone comprato” e avevano un odore di fresco pulito, che "non profumava" come quello di quei saponi "del negozio", che a noi più giovani sembravano più "moderni" ed "eleganti".
 
Ma, a differenza di molti saponi oggi in uso, quelle “pietre di sapone” pulivano davvero.
 
Non solo i vestiti. Ma anche le pelli, quelle più delicate e fragili. Fino ad essere utilizzate - quasi un'abluzione sacra - per la pulizia degli anziani costretti a letto, per evitarne le piaghe da decubito.
 
 
Questa nota accompagna su Zoomsud l'articolo di Mimma Miceli http://www.zoomsud.it/commenti/43580-il-sapone-io-lo-faccio-in-casa.html
 
 

mercoledì 21 novembre 2012

L'amica più bella


 
A Lianella Scambia Condello
 
 
 
C’erano sempre i gabbiani sul mare

quando, tornando da Messina,

uscivamo sul ponte a prenderci

il vento tra i capelli…

9/2/79

 

A quali occhi somigliavano i tuoi

occhi? Agli occhi belli di Lianella

velluto e seta, impercettibile

carezza dell’anima all’anima…

17/5/2008


Cecilia, Lia, Lianella la conobbi a casa dell’onorevole Misefari, uno dei padri del Pci in Calabria. Dolce, timida, le spalle leggermente incurvate, gli occhi profondi e ridenti. Nel suo vestiario il segno di un certo benessere economico, ma portato con molta semplicità e discrezione.
Avremmo dovuto, secondo l’anziano e autorevole onorevole, ordinare il suo archivio, ma, all’inizio, non trovammo che giornali abbastanza comuni e opuscoli di non straordinaria importanza. Restavamo qualche ora nello studio a prendere polvere e poi, io con la scusa dell’autobus e lei con quella d’accompagnarmi, scappavamo: dalla cardinale Portanova al Duomo, praticamente tutto il Corso. Chissà perché non ricordo in quel periodo pomeriggi di sole: la rivedo con me sotto una pioggia leggera, tranquillamente grigia, che non ci impediva di prendere un gelato. Non so che cosa dicessimo. Forse le raccontavo della tesi che stavo preparando e lei, che aveva appena finito l’Università, mi diceva del tentativo di ottenere una borsa di studio.
C’era qualcosa d’incerto nel suo sguardo, di smarrito; mi venne più volte il dubbio che fosse troppo dolce, ma avrei ben presto capito quant’era forte.
Venne con me a Gambarie, al corso annuale delle Acli. Non credo che né a me né a lei sia rimasto molto di quanto in quei giorni si veniva discutendo, anche se alle riunioni prendevamo seriamente parte tutt’e due, ma piuttosto l’atmosfera di amicizia, di allegria, di gioia che abbiamo tante volte rievocato. Le camminate al mattino nei boschi, il latte caldo di un sapore mai più provato e soprattutto le sere, quando sedutici a cena, non appena cominciava ad apparire il solito brodino, Piero, Mimmo, Rita, Lia, io e qualche altro sparivamo e andavamo a mangiare in una bettola, una stanza vuota e malconcia, del pane di grano freschissimo, salame e formaggio e, inevitabile per Piero, pasta aglio e olio. Le barzellette, i racconti, le risate e le peripezie dell’850 barcollante di Rita, il calore di quelle sere tiepide di settembre; i canti da falsi ubriachi tornando in albergo: tra le sere più belle, indimenticabili della nostra vita.
A Gambarie passammo solo una settimana, ma fu come se avessimo passato anni. Lia continuava a parlare pochissimo si sé, ma intanto cresceva la mia stima e la mia simpatia per lei. E parlavo, parlavo. Lungo i viali di Gambarie, lei ascoltava, commentava, incoraggiava, rasserenava. E continuava ad ascoltare, in quei ritorni da Messina, sul ponte del traghetto, in giornate piene di luce, caldo, sole, con i gabbiani che non annunciavano pioggia ma ancora nuovo sole.
Partì per Biella, dove aveva trovato lavoro. Cominciò per lei una stagione d’esperienze – il freddo, la noia d’un cittadina di provincia, un lavoro di animazione al pomeriggio che non corrispondeva certo alla sua preparazione – e di esilio. Reggio le mancava infinitamente.
L’anno dopo, il convegno delle Acli si svolse a Brancaleone. Arrivarci fu quasi un’avventura. Ci incontrammo alla Centrale subito dopo pranzo; l’unico treno utilizzabile era un accelerato: un viaggio, insomma, di ore. Arrivammo che era quasi sera, il sole scomparso, l’aria grigia che segue il tramonto, il tratto dalla stazione all’albergo solitario. Un albergo da ridere, in quel luogo: elegante, tutto moquette e poltrone, isolato nel bel mezzo di una campagna bruciata dal sole, immerso nel ronzio degli insetti. Eravamo praticamente fuori dal mondo: niente lunghe passeggiate, niente gelati, niente cene nelle bettole. Molto tempo per parlare, tanto più che stavamo tutte e due nell’inquieta fase che precede il matrimonio. Adesso anche lei si diceva: i suoi sentimenti, le sue paure: inquietudini vaghe, preoccupazioni incapaci di trovare parole precise.
Parlava assorta, dolce, un velo di sgomento negli occhi profondi e nerissimi, un impercettibile trasalimento che le increspava il volto.
Quando si svestiva per la notte – un corpo perfetto, la pelle olivastra ma piena di luce, il seno florido – mi chiedevo se si rendesse conto di quant’era bella.
L’ultimo giorno, mentre tutti gli altri tornarono a Reggio subito dopo il pranzo, il solito gruppetto – Piero, Rita, Mimmo, noi due – salimmo a Gerace. Mi sarebbe piaciuto sposarmi lì, in quel paese abbandonato, con la sua struttura medievale praticamente intatta, le decine di chiese, la visione della valle fino allo Ionio. Era una specie di sopralluogo, ma questo lo sapevamo solo lei ed io. E anche Lianella, girovagando per quelle stradine, cominciò a pensare che quello era il luogo giusto per sposarsi – “Ma bisognerà rifornire gli inviatati di pelliccia”, la cripta della cattedrale essendo freddissima – l’arrivederci più bello alla Calabria prima di andare via.
Ci sposammo – a Reggio, non a Gerace – a pochi mesi di distanza l’una dall’altra: cominciammo a vivere davvero in parallelo. Tutt’e due lontane da una terra amata senza misura, da un ambiente umano in cui ci sentivamo vive; alle prese con problemi semplici ed enormi – cucinare, lavare, stirare – e con molti nodi da sciogliere.
Il lavoro le costava molto: sveglia alle quattro del mattino, ritorno non prima delle tre del pomeriggio, quattro ore sul treno ogni giorno, almeno due cambi, ragazzi difficili a Torino, politicizzati, sì, ma anche più disposti a distruggere il vecchio che a creare il nuovo.
Studiava, leggeva. A Torino frequentava conferenze, andava a vedere mostre, seguiva anche qualche lezione all’Università; pensava di prendere una seconda laurea.
Le pesava come assurdo e crudele il fatto che per lavorare dovesse restare lontana dalla Calabria. Nel ricordo Reggio si faceva mito: piena di vita, di attività e, soprattutto, piena di sole, bella. Cuneo, al contrario, le appariva sempre più fredda, con la gente tesa ad accumulare denaro, distante, non nemica, ma indifferente.
Nelle sue lettere – pagine intense, che leggevo e rileggevo avidamente – c’era tutto il suo essere con gli altri, nella storia, e, insieme, tutto il suo bisogno di vivere ritirata, lontana da mondo, immersa un po’ nel sogno. Un dolore, prima appena accennato, poi sempre più esplicito si faceva strada: il timore di non poter avere figli e il conseguente calvario di medici, visite, analisi.
Lei che non aveva mai preso un’aspirina, cominciò a vivere di pillole e iniezioni. Il timore si stemperava a tratti in speranza, per precipitare più spesso in disperazione.
Ogni lettera, ogni telefonata, ci invitavamo reciprocamente a “venirci a trovare”. L’occasione la trovammo, finalmente, per le elezioni del giugno 78, poiché io dovevo scendere a Reggio in quel periodo e lei doveva andarci a votare. Avrei voluto che restasse qualche giorno a Napoli, ma arrivò di sabato sera. Il tempo di cenare, di vedere un po’ la casa, e la mattina seguente, dopo il mio voto, la nuova partenza.
Il treno stracolmo e in ritardo; il sole caldo e sempre più cocente; i contrattempi non riuscivano a incrinare la gioia di Lia di scendere e la nostra di rivederci finalmente da sole.
Parlammo da Napoli a Reggio senza interruzione. La nostra vita si sgomitolava nelle nostre frasi, senza pudori, senza riserve: a lei potevo dire ciò che nessuno poteva ascoltare, lei poteva fare lo stesso con me. Da Scalea in poi, il viaggio lo facemmo in piedi, al finestrino: l’orrore di una costa distrutta, ma poi più giù, dopo Amantea, fasce di mare viola e verde, spiagge libere per chilometri con la gente che faceva il bagno e, soprattutto, ginestre: il loro profumo, nel caldo afoso, ci inebriava. Il bisogno di un figlio si era come cristallizzato in una disperazione non rassegnata.
Non credeva che si trattasse di una causa psicologica ma sembrava propensa a fingerselo, per stare un po’ tranquilla, qualche mese, almeno l’estate, leggendo qualche libro, sotto il gelsomino, nel giardino della sua casa.
Rifeci lo stesso viaggio pochi mesi dopo: da sola, col cielo grigio carico di pioggia. Lia passata dalla vita alla morte in un istante, in un ospedale del Nord, per una maledetta analisi. Certo con la non rassegnata dolcezza e con l’eroica mitezza di chi aveva lottato consapevole che, alla fine, avrebbe perso.
A Reggio pioveva. Rade gocce, come d’una malinconia struggente che si vuole il più possibile contenere. La corsa in macchina dalla stazione alla sua casa. Arrivai proprio mentre il furgone mortuario si fermava davanti alla porta e la bara, appena giunta in aereo, rientrava per un istante nella casa della sua fanciullezza.
La folla immensa in chiesa. Fuori, per l’ultimo commiato, un albero si dondolava, lacrimando sulla bara  rivoli di pioggia sottile e silenziosa, ma all’improvviso si fece uno squarcio  azzurro nel cielo e nuvole rosse brillarono, poi, fino a notte. L’abbraccio di Nicoletta, la sorella: “Ah, Maria, tu sai cosa aveva in cuore Lia…”
 
Sì, io lo so…
Lianella è morta il 2 febbraio del 1979. Qualche anno dopo è morto anche Piero Ravenna.

martedì 20 novembre 2012

La donne. E i bambini


 
Mara Rechichi, firma oggi, per Zoomsud, un pezzo sulla Giornata mondiale dell’Infanzia e lo passa, su fb, anche sulla pagina nazionale di SNOQ. Il primo commento è: Che c’entra questo con snoq?

Leggo il commento due, tre volte, pensando che ci sia un errore.

Mi appare incredibile che qualcuna pensi che i bambini non hanno niente a che fare con le donne. E viceversa.
 
 
nella foto, il doodle di Google per la Giornata dell'Infanzia

 

 

 

lunedì 19 novembre 2012

Il Natale che verrà. Forse

 
 
La coda alla posta. Il bollore dell’acqua per buttarci la pasta. La telefonata che rassicuri. Un ospite gradito. Un regalo per il compleanno. Il responso di un’analisi clinica. Due ore tutte per sé. Che passi la notte. Che torni l’estate.
 
Piccole attese individuali nel continuo dei giorni. In minuscolo, anche se qualcuna può davvero cambiare i giorni e una in maiuscolo, perché in ogni nuovo figlio, pegno dell’immortalità se non degli uomini dell’esistenza in sé, la vita sembra ogni volta ricominciare daccapo, nuova e felice
E attese collettive. Il lavoro, che chissà se e quando tornerà a vedere occupati tutti quelli che, per età e preparazione, dovrebbero creare ricchezza comune, materiale e immateriale. Il completamento di un’autostrada che hanno iniziato a costruire mezzo secolo fa – ci vorrebbe un Omero a cantarne, come fossero epiche, i decennali sperperi di tempo e denaro. Il 10 marzo del 2013 che, forse, ci vedrà tornare alle urne, con tutto ciò che ne consegue nella riorganizzazione dell’assetto politico del nostro paese.
 
Per secoli abbiamo, anche, conosciuto l’Avvento come un tempo dell’anima in cui il mondo intero si faceva coltre e silenzio per la prossima novità di un neonato senza casa e vestiti, riscaldato, in una fredda grotta, solo dall’umile fiato di un asino e di un bue.
 
Poi, anche il Natale è stato compromesso e deturpato dagli scambi consumistici camuffati da regali, dalle tavolate-abbuffate di falsa concordia familiare, dalle orrende volgarizzazioni di cinema, televisione e pubblicità, dalle luminarie stordenti e dagli addobbi pacchiani che, negandoli, non confortano solitudini e dolori.
 
Eppure, magari senza sapere più Chi si festeggiava, pure è rimasto un racchiudersi e, insieme, un dilatarsi del cuore nell’attesa del Natale come l’ammutolirsi stupito e incantato di fronte al mistero del nostro nascere e morire; della fatica che mettiamo per andare avanti; della nostra capacità di ricominciare, sempre e comunque; della giovinezza che incredibilmente il vecchio mondo ritrova a certe curve della storia; dei bagliori di gioia che ci zampillano dentro e ci fanno scegliere ancora, nonostante tutto, la vita. Dell’attesa d’una resurrezione nel mentre si attraversa la morte, il miracolo di costruire e organizzare speranza quando atroci dolori hanno falciato ogni ragione di sorriso. Esperienza semplicemente umana, che accomuna chi ha e chi non ha riferimenti di fede o, semplicemente, religiosi.
 
Questo, finora almeno, sembra essere un anno particolare. La crisi economica morde un po’ tutti. Nessuno, o quasi, pare attendere il Natale. Addirittura, nessuno sembra darsi la pena di fingere di attenderlo.
 
Ci saranno meno luminarie, meno acquisti, meno facce addobbate a inesistente amicizia. Del genere: non tutti i mali vengono per nuocere.
 
Ma anche sempre meno ragioni di Attendere come sinonimo di Sperare.
 
Al contrario dell’ottimismo – che può anche essere “facile”, un dono di natura, un certo sforzo di volontà per correggere l’umore nero, – la speranza è impegnativa. E’, sempre, assunzione di responsabilità: attendere a…; lavorare per…; piantare semi…; aggiungere mattoni…; prendersi cura di…
 
Sub specie religionis, certo. Non per nulla è una delle tre virtù teologali. Ma anche in campo personale e politico-sociale.
 
Domenica 18 novembre, con due settimane di anticipo sul resto dell’Italia, secondo la tradizione ambrosiana, nella diocesi di Milano inizia l’Avvento.
 
Chissà, forse dovremmo prenderne esempio. E darci qualche tempo in più per imparare ad Attendere.
In termini di fede religiosa, chi vuole. In termini civili, un po’ tutti.
 
Per esempio. Quanto bisogno avrebbe – ha – la Calabria di speranza, ovvero di serio, appassionato, lucido sforzo collettivo di ri-tessitura di possibilità di futuro? Di politica, quella alta, che qualcuno definì “la forma più alta della carità”?


Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/43209-ma-questanno-verra-natale.html
 
 
Nell'immagine, il presepe dell'Eremo di R.C., in cui la capanna  del Bambino richiama le capanne fatte d'estate sulla spiaggia

venerdì 16 novembre 2012

L'orizzonte di Reggio


 
Acqua e fuoco nascosto sotto uno scialle bianco, e gli impalpabili veli di Morgana morbidamente adagiati tra una spiaggia e l’altra a fare del cielo e del mare un unico respiro.

In mille, diverse, sfumature, un’immagine che mi appartiene – cui appartengo – da ben prima di nascere.

Anche se mi accadesse di perdere senno e coscienza, fino all’ultimo conserverò una qualche pennellata di quell’acquarello.
 
 
foto di Antonio Calabrò

 

giovedì 15 novembre 2012

Le notizie e la Notizia

 
 
Metà degli anni sessanta, più o meno. Stagione mite, primavera o pre-autunno. Ricordo come un venticello gradevole nell’autobus e, poi, nel Tempio della Vittoria– con gli anni avrei trovato fastidioso questo termine, più adatto agli dei antichi o alla religione civile, meglio, nella chiesa di San Giorgio al Corso - una sensazione di spaesamento, quasi di lieve vertigine. Quello che mi colpì davvero non fu quel primo uso della lingua italiana – era così bello sentirne il suono anche se, con l’inizio del ginnasio, non mi sarebbe forse dispiaciuto misurarmi con il latino, sorridendo a quel “grazia prena” (prena erano le vacche incinte, certo non la “piena di grazia”) con cui le vecchiette, nella chiesetta delle mie domeniche, ritmavano l’Ave Maria. Mi colpì la posizione del prete, che non dava più le spalle ai fedeli, bensì le dava all’altare, rivolgendo ai fedeli il suo volto. Mi diede un’impercettibile sensazione di fastidio, come l’involontaria visione di un’immagine poco opportuna. Oggi sono propensa a ritenere che quel cambiamento di posizione (lo sguardo non all’Altissimo, ma a se stessi) ha avuto un peso non indifferente nel successivo indebolimento della chiesa cattolica nella nostra società.
Dovessi scegliere un solo rito, tra tutti quelli della mia infanzia, non avrei dubbi: l’adorazione, della sera del Giovedì Santo e del Venerdì mattina, a quello che allora si chiamava “il sepolcro”. Quei vasi di grano tenero, verde bambino, verde appena cresciuto, verde quasi dorato con i grandi fiocchi di raso – colore dominante, il rosso: quasi papaveri in giardino – che plasmavano davanti allo sguardo, tra il profumo dei fiori e dell’incenso, la costante rinascita della vita, che continuamente abbatteva la morte. Un simbolo semplice e potente, perfettamente comprensibile in un tempo e in un luogo in cui la terra era riferimento per tutti.
Si usano ancora i vasi di grano – non in tutte le parrocchie, ma in molte chiese sì. E’ un sollievo vederli, ma gli altari, detti ora “della reposizione”, hanno qualcosa di artificioso: il segno non contiene più in sé l’eco profonda, l’onda perpetua del suo significato. Resta opaco. Quanto conta, nell’impatto emozionale, la simbologia in una dimensione fortemente spirituale come quella religiosa? Come e quanto parlano i simboli del cattolicesimo, legati ad una realtà di contadini-pastori-pescatori, in una società dove il “cinguettio” più ascoltato non è quello degli uccelli?
La religione non è una dimensione individuale. Trovo davvero “forzato” il pensiero di chi lo sostiene: perché è una visione globale della realtà che non si toglie e si mette come un soprabito. Altra cosa è la “laicità”, il saper scindere il proprio modo di vedere dalle norme e dalle regole che riguardano la società, dove, in democrazia, l’equilibrio di diritti e doveri corrisponde al mutare di quanto la maggioranza ritiene migliore o peggiore, fermo restando che, nelle forme e nei limiti della legge, ad ognuno è dato di concorrere al formarsi dell’idea collettiva vincente.
Non so se la chiesa – quella che possiede anche beni economici – paghi o meno sufficientemente le tasse: se non lo fa, che si cambino norme, con equità, senza buttare il bambino (le effettive attività caritatevoli) con l’acqua sporca (dei privilegi). Non apprezzo la gestione dell’ora di religione: una persona di media cultura dovrebbe conoscere la storia, le tradizioni, gli usi delle religioni, almeno le più importanti, e, in Italia, dovrebbe avere una conoscenza non superficiale del cattolicesimo (se no, non capisce, ed è una perdita secca, né Dante, né Manzoni, né Giotto, né Michelangelo e così via) e della Bibbia. E’ vergognoso che persone che sanno di letteratura, di storia, di scienze ignorino che cosa ci sia scritto nella Bibbia.
Non mi piace la chiesa – intendo quella che con ogni o maggiore evidenza può essere considerata portavoce del cattolicesimo (preti, vescovi, cardinali) – che parla troppo di cose del mondo: se bisogna o meno costruire una strada o un inceneritore, mettere o togliere una certa tassa ecc. ecc. – che perde tempo ed energie in faccende troppo discutibili, troppo dipendenti da fattori contingenti e dove la giustezza o meno della posizione assunta verrà in fondo decisa a posteriori dall’incontrollabile flusso degli eventi. Anche quella che guida le lotte alla mafia ecc. ecc.: tutti compiti nobilissimi, che non si vede perché non debbano essere condotti da padri di famiglia, donne capaci, giovani volenterosi.
Non mi interessa davvero sapere cosa il cardinale di Napoli, Sepe, pensa dell’amministrazione De Magistris e neppure che cosa il vescovo di Reggio, Mondello, pensa dello scioglimento del Comune per contiguità malavitosa. Considero ovvio il "no" ad ogni "male" (violenza, sopruso, scelte di morte) e non identificabile il "peccatore" con la sua "colpa" (grande lezione di un Papa, appena citato dal leader democrat come suo riferimento ideale). E non mi intriga dibattere sulle sfumature del pensiero dei vescovi Nunnari e Morosini riguardo il perdono agli ‘ndranghetisti.
Alla chiesa chiederei un’altra cosa: evangelizzare. E’ ben strano che nella società che sforna notizie su notizie, che è sempre alla ricerca di quella più nuova e più interessante, non passi la Notizia. Quella buona. Che ha a che fare col senso del nostro essere qui hic et nunc e con la vita eterna. (Naturalmente, con tutta la libertà di accoglierla o meno; di considerla "salvezza" o "stupidità" ecc. ecc.)
Che non nasconde la Storia, anzi, parafrasando Bonhoeffer, sa che nessuno che non abbia i piedi radicati nel presente raggiungerà mai il Cielo, ma conosce la differenza tra le scelte storiche fondamentali (un cristiano non può seguire Hitler) e quelle di importanza meramente contingente (per cui un cattolico può stare, con uguale dignità e decenza, in un partito di destra, di centro e di sinistra).
Decidere se stare dalla parte o contro Scopelliti e Arena, per o contro D’Attore ecc. ecc. ha la sua importanza – non solo politica, ma anche morale. Ma, come dire, è scelta “discutibile”: che non attiene a ragioni “di fede” religiosa, ma a convincimenti, conoscenze (culturali), interessi (non necessariamente meschini), esperienze di vita (lavoro, viaggi) del tutto “storici”: transeunti, mutabili.
Non è quello che mi importa (importerebbe) sentire da chi sale all’altare.
L’unica parola che ascolterei come indispensabile è quella che, bucando l’opacità, il senso di freddo e di stantio di certe celebrazioni, sommuova le viscere e dia, con una speranza assoluta, respiro trascendente anche all’impegno dei giorni.
 

lunedì 12 novembre 2012

La Nemesi di Philip Roth

 
 
 
Quante parole italiane poteva conoscere una bambina della periferia campagnola di Reggio, all’inizio degli anni cinquanta, nel suo primo lustro di vita? Non saprei quantificarle, ma certo non dovevano essere tantissime.
 
Eppure conoscevo il termine: poliomelite. Pronunciato, dagli adulti di casa, in un soffio, con le lacrime agli occhi e le spalle incurvate dalla mannaia che aveva già falciato il bel bambino biondo della cugina ‘N. e stava per portare via anche il suo secondogenito. Un senso di oscura minaccia, di inquietante impotenza, che scomparve qualche anno dopo col vaccino preso insieme ad uno zuccherino e il conseguente, successivo, inserimento nel mio pantheon ideale, di Sabin, il cui nome mi suscita ancora un sentimento di devota ammirazione.
 
La polio – l’orrore di un’epidemia che, negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, ha mietuto decine di migliaia di vittime bambine in America – è la coprotagonista dell’ultimo libro di Philip Roth. Appena qualche giorno fa il suo editore ha confermato che il grande scrittore americano – per moltissimi il più grande tra i viventi, incomprensibilmente non premiato (ancora) col Nobel – ha riposto carta e penna, come aveva annunciato dopo l’uscita di Nemesi:
 
«Ho dedicato la mia vita al romanzo: li ho studiati, ho insegnato, ho scritto e ho letto. Con l’esclusione di quasi tutto il resto. Il troppo stroppia. Non mi sento più legato a questo fanatismo di dover scrivere che ho sperimentato durante la mia vita. Non credo che un libro in più o un libro in meno possa cambiare la sostanza di quanto ho già lasciato. Se scrivessi un nuovo libro sarebbe sicuramente un fallimento. Chi mai vorrebbe leggere un libro mediocre? Alla fin della vita il pugile Joe Louis l'aveva detto: ho fatto il meglio che potevo. Avrei detto lo stesso del mio lavoro. Ho fatto anch’io del mio meglio».
 
Protagonista di Nemesi è Eugene Cantor, detto Bucky, un ragazzo ebreo, forte e coraggioso, che, per un grave difetto della vista, non è stato arruolato, come avrebbe fortemente voluto, nell’esercito che sta combattendo contro i nazisti. Bucky svolge con passione il suo compito di istruttore atletico dei campi estivi dei ragazzini di un quartiere della sua cittadina, Newark, finché si trova a dover combattere in una guerra ancora più sporca e odiosa: quella contro la polio che attacca, a tradimento, i suoi piccoli allievi. La sua incapacità di resistere fino in fondo e il terrore di essere stato tramite di contagio con altri ragazzi, prima di essere lui stesso devastato dal male, sconvolge la sua vita inducendolo a rinunciare a qualsiasi forma di conforto affettivo e a espiare per sempre la sua “colpa”.
Ha scritto Asor Rosa che, in Nemesi, «Roth abbassa e restringe il suo orizzonte, semplifica le sue descrizioni e le sue psicologie, la natura e il dramma dei suoi personaggi» e che la sua capacità «pirandelliano-shakespeariana, di giocare sui diversi punti di vista, s'impone ancora una volta con evidenza esemplare, struggente pietà e impietosa ferocia».
 
Un libro sulla vita e sulla morte, sul groviglio di scelte individuali (davvero libere?) che si compongono in drammi sociali e, di nuovo, in tragedie personali, un urlo contro Dio – che, a tratti, più che ad un assoluto ateismo, sembra vicino ad un giobbiano chiedere conto all’Altissimo, accusandolo di inumana crudeltà, dell’insopportabilità di una sofferenza che riguardi gli innocenti e, soprattutto, i bambini – che lascia, come tutti i libri belli e di spessore, con un nodo alla gola: e, quasi, il desiderio di un pianto silenzioso che sciolga la parte più emergente delle emozioni tratte dalla lettura, lasciando a quelle più profonde il tempo e il modo di depositarsi nella propria vita.
 
Non è l’aspetto fondamentale del libro, ma, onestamente, mi ha colpito molto un particolare. E, ancora di più, la mia reazione al particolare.
 
Tra gli untori considerati possibili – in una fase in cui, non essendoci certezze mediche, la polio veniva fatta risalire, soprattutto da padri e madri in apprensione, a cause di ogni genere – per ben 23 volte si fa riferimento a dieci “teppisti italiani”, dai quindici ai diciotto anni, che, tutti tronfi, sputano tutto intorno al campo giochi di Weequahic con l’obiettivo di “contagiare gli ebrei con la polio”.
Fino alla fine del libro, mi sono chiesta se quel termine,’”italiani”, sarebbe stato, ad un certo punto, ulteriormente specificato. Per esempio, in “calabresi” (che erano in tantissimi, anche se non i soli, in quel periodo, in America). Naturalmente, no.
 
 
Rimando su Zoomsud ai seguenti articoli:
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

domenica 11 novembre 2012

La lezione del professor Monti


 
 
Un anno fa Mario Monti,  insieme all’incarico di formare un nuovo governo, ricevette, in realtà, da parte del Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, un compito più grande: quello di dare all’Italia, sfibrata economicamente, socialmente e moralmente, ancora una chance: non cadere, insomma, definitivamente nell’enorme voragine aperta davanti a lei, ma ricominciare a camminare, ritrovare una strada.
 
Non tutte le decisioni del governo Monti sono state perfette. Né, con le forze parlamentari in atto, potevano esserlo. Ma se oggi l’Italia esiste ancora, se c’è un futuro possibile, per quanto difficile, è merito di un professore che ha provato a trasmettere la dignità e il valore dell’agire con senso dello Stato.
 
Non ci sarà un buon futuro, per il nostro Paese, se si volesse prescindere dalla sua lezione.
 

 

venerdì 9 novembre 2012

A Lucia Annunziata: Brava, grazie


 
Non ho nessuna particolare simpatia per Lucia Annunziata. Ma mi è piaciuta molto quando, la notte delle elezioni americane, ha mandato a quel paese, dando del “cretino” a Ferrara e del sostanzialmente complice alla cretinaggine a Mentana.

Mi è sembrata una che, perfettamente consapevole di “aver studiato”, non concede al chiunque di turno, comodamente chiacchierante su una poltrona, di ridicoleggiarla.

Mi piacerebbe dirle: Brava! Grazie! Per il respiro più profondo con cui, magari, avrà fatto iniziare la giornata anche ad altre donne.
 
A me, sicuramente.

 

 

 

domenica 4 novembre 2012

D. Grossman: quando l'indicibile si fa poesia



Orfano, si dice di chi ha perso un genitore. Vedovo, di chi ha perso la moglie. Ma per chi perde un figlio non c’è definizione. La lingua si riconosce incapace di declinare in un termine la lacerazione più straziante che possa colpire gli umani.

A sei anni dalla morte del figlio Uri in una delle tante guerre israeliane, David Grossman pubblica Caduto fuori dal tempo: una lunga poesia, un urlo, una corsa nel vento, un girotondo intorno all’angoscia, un’attesa, un'onda che monta e sbatte sulla riva, un silenzio che trova le parole per dirsi.
Trattandosi di un libro non calabrese, logica vorrebbe non se ne desse notizia su Zoomsud. Ma poiché si tratta di un testo che è, per tutti e per chi ha motivi di profonda sofferenza soprattutto, un balsamo di emozioni profonde e vere, non dubito che i nostri lettori comprenderanno il senso di tale eccezione. (Non è certo Grossman che ha bisogno di essere conosciuto, ma la lettura di questo testo di Grossman può far bene a tanti).
 
Un uomo interrompe la cena, si alza, lascia la moglie e inizia un viaggio, verso il mondo “di laggiù”, quello dei morti, che, dal momento della scomparsa del figlio, contiene ormai una parte di lui stesso. Nel suo andare, senza una meta che non sia, appunto, il “laggiù”, attira, come una forza magnetica, altri che hanno esperienze simili: il Duca, fuggito dal palazzo, la riparatrice di reti, il ciabattino, il maestro di matematica, il cronista delle storie cittadine, tutti tesi al punto in cui il mondo dei vivi e dei morti si intrecciano.
 
Ha scritto Grossman, presentando il libro (in Italia su Repubblica con la traduzione di Alessandra Shomroni):
«Ricordo anche di aver pensato (dopo la morte di Uri, ndr) che, se il destino mi aveva mandato in quella terra di esilio, per lo meno avrei cercato di tracciarne una mappa, per quanto possibile e nell'unico modo che ho a disposizione: con la scrittura e il racconto. Avevo la flebile, patetica speranza che attraverso la scrittura avrei potuto trovare qualcosa - un cammino, una fessura, un contatto... Ritenevo di poter ammorbidire, rendere flessibile, far fluire un po' di calore in qualche punto remoto, al limite estremo dell'universo, del nulla assoluto, dell'ermetico.
Oppure, accidentalmente, per puro caso, avrei inventato una frase magica, una sorta di “Apriti Sesamo” che all'improvviso avrebbe incrinato la scorza impenetrabile del nulla e forse allora, per un istante, avrei visto... Naturalmente non ho visto quella “Terra di laggiù”. Però è successa un'altra cosa: l’esperienza dei vivi che toccano la morte, che sono toccati dalla morte, un'esperienza che un tempo mi sembrava sostanzialmente gelida, paralizzante e inanimata, nel corso della scrittura (e forse a causa di essa) si è rivelata complessa e articolata, dinamica e in costante evoluzione, venata di intimità, di nostalgia, di tristezza, di pienezza di vita e di vuoto di vita.
E dal momento in cui ho iniziato a scrivere, le frasi sono affiorate sotto forma di poesia, con il ritmo e il respiro della poesia. Non è stata una scelta. Non è stata una “decisione”. Un attimo prima non sapevo che sarebbe stato così, ma mentre scrivevo le parole arrivavano quasi sempre sotto forma di poesia. Ogni giorno mi sedevo a scrivere prosa, e scaturiva poesia. Perciò ho ca- pito: la poesia è il linguaggio del mio dolore.
Posso solo supporre per quale motivo le cose siano andate così. Forse perché la poesia è più vicina al silenzio. O perché l'impulso di scrivere arrivava quasi sempre insieme a quello di non scrivere e alla sensazione che, se proprio dovevo dire qualcosa, quella cosa doveva essere esile, quasi evanescente: poesia.
Ma queste sono spiegazioni successive, un tentativo di trovare un senso a ciò che probabilmente un vero senso non ha. Quando cerco infatti di capire perché io abbia scritto il libro in questo modo, ricordo soprattutto una sensazione fisica mai provata in precedenza: come se una forza mi piegasse il polso costringendomi a interrompere la frase proprio in quel punto, a metà strofa, a metà di un respiro, e obbligandomi a passare alla riga successiva.
Voglio aggiungere un'altra cosa a proposito della stesura di questo libro: il primo impulso a scriverlo è nato dalla volontà di creare un movimento nella staticità assoluta. Nell'immobilità e nel gelo totale che la morte impone non solo a chi muore ma anche, in un certo senso, a chi soffre per quella morte.
E, ripeto, posso immaginare - soltanto immaginare - di avere cercato non solo delle parole ma anche il modo con cui quelle parole divenissero movimento. Di aver cercato un ritmo che mi desse la sensazione di potermi ancora muovere, di essere libero dinanzi a ciò che minacciava di paralizzarmi e pietrificarmi.
(…)
Ecco cosa mi ha dato la scrittura: la sensazione di non essere una vittima passiva e impotente di ciò che è accaduto. Ovviamente non potrò cancellare il passato e non potrò riportare in vita il mio caro e neppure far muovere nulla in lui. Ma non sarò paralizzato e immobile contro l'arbitrio che mi ha colpito. E un'altra cosa ho imparato in questi anni: in certe situazioni l'unica libertà che ha un uomo è quella di formulare la propria storia con le proprie parole, non con quelle dettate da altri.
So quanto sia piccolo l'atto creativo dinanzi alla morte. Quanto l'impulso di creare, inventare, immaginare, insistere a cercare la parola giusta, l'unica, sia senza speranza. E, in generale, so quanto sia fragile l'illusione umana che questo sforzo di precisione abbia un qualche significato "obiettivo" in un mondo indifferente, arbitrario e inspiegabile.
Eppure, mentre scrivevo, avevo spesso la sensazione che se avessi trovato la parola giusta avrei in qualche modo compiuto una piccola riparazione; avrei creato un luogo - o addirittura una casa - per me e forse anche per chi leggerà il libro, in un mondo divenuto quasi interamente terra di esilio.
Del risultato finale, del libro terminato come opera che va incontro al suo destino, testimonieranno gli altri. Io posso solo dire che mentre lavoravo a questo libro sentivo - in contrasto con le circostanze in cui è stato scritto - di essere fortunato perché potevo dare a tutto “questo” parole».
 
Il libro, pubblicato da Mondadori alla fine di ottobre ha in copertina una foto (nell'immagine in alto un particolare) del fotografo ligure Guglielmo De Luigi, scattata nella regione del Devon e scelta dallo scrittore come complemento ideale per una delle sue opere più complesse.
 
L’unico libro che ho letto quest’anno per cui mi sentirei di spendere la definizione: “Necessario”.
 

sabato 3 novembre 2012

La "martorana" al sapore di sorbe acerbe

 
 
Dopo, ho cominciato a cercati. Di mattina esco presto, per passare davanti al bar dove mi hai offerto una cioccolata calda. Che freddo quel giorno, ero scesa dal pullman due fermate prima di casa a comprare, che cosa non so, tu stavi in macchina, hai accostato, mi hai offerto un passaggio. “Sono stanca – ho piagnucolato come una bambina – e ho fame”. Ci siamo fermati al Tahiti, mi guardavi inzuppare la brioche nella cioccolata fumante - un sorriso timido e gli occhi scintillanti. Da quanto tempo mi amavi? Da quanto ti lanciavo sguardi, rispondevo ai tuoi sms come se volessi sottintendere chissà che, ti chiedevo: me lo fai un regalo? Sicura di me, dei tanti che avevo intorno, io giocavo con te. Arrossii, quel tardo pomeriggio, al tuo rossore.
 
Mi sveglio tutte le notti, sudata, il cuore martellante e un senso di voragine che m’inghiotte. Sempre sullo stesso sogno, alla stessa scena. Sento nelle ossa lo schiantarsi della macchina al muro. Dicono che sei morto di colpo, che non hai sofferto. Le mie ossa sono tutte rotte. Ogni notte quello schianto, nel corpo e nell’anima.
 
Pensavo avessi un volto. Ho scoperto che avevi tante facce: felici e tristi, timide e sicure, serie e buffe. Mi passano tutte in mente, ricordo ogni sfumatura, la piega delle labbra imbronciate, i capelli scompigliati, l’ombra sulla nuca se ti giravi all’improvviso. Ad ogni faccia si mescola il tuo volto nella bara. Avevi come un sorriso amaro, di una sconfitta temuta, che speravi di spostare in avanti e invece no, eccola lì.
 
Non ti ho abbracciato, da morto. Non ho mai baciato i morti. Ho finto di appoggiare le labbra sui parenti più stretti, per orrore del gelo dei corpi. Con te è stato diverso: come se lì, nella bara, non ci fosse che un simulacro, una maschera, e tu fossi andato da un’altra parte. Avevi deposto l’involucro – le tue mani erano ancora belle – ed eri volato via: perché?, perché? L’assurdità lacerava l’aria immota: perché la terra non si apriva per inghiottirci tutti e i fiori nelle tante ghirlande mantenevano il loro colore? Perché il mare non trascinava a fondo case e persone? Mi accorgevo di respirare. Tu non respiravi più. Condannata a crescere, senza di te.
 
Sapevo che eri più grande di me. Non solo per gli anni, quasi trenta tu, poco più di venti io. Anzi, certe volte che ridevi e scherzavi potevi sembrare un ragazzino. Ma i tuoi pensieri non erano i miei. Io volevo ballare e divertirmi e correre sulle moto e dimenticare i guai della mia famiglia. Tu sorridevi, ma eri pieno di mille pensieri: anche quando stavi con me. Sapevo che mi amavi. Come nessuno mai mi aveva amato. Come nessuno mi amerà.
 
Ero lusingata dai tuoi occhi che, a vedermi, si riempivano di tutte le risa del mondo, dei messaggi che, in giornate di lavoro pesante, non dimenticavi mai di mandarmi, e di tutte le tue attenzioni. Uscivamo insieme. Io uscivo con altri.
 
Capii di amarti un venerdì sera. Siamo andati a mangiare in una pizzeria sul mare, eravamo in tanti. Qualcuno raccontava barzellette, ridevamo come pazzi. Non so come fu che, al ritorno, restammo soli. Guidavi piano, la luce della luna tra gli alberi disegnava la notte. Ero su di giri, forse avevo anche bevuto un po’. Tu eri serio, anche un pizzico triste, ma sorridevi gentile. “Fermati”: era bello quell’angolo segnato da una scia di luce argentata. Parcheggiasti. Tirasti fuori dalla tasca un pacchetto piccolo. “Lo sai che non mi piacciono le cose piccole”. “Aprilo”. Non dicesti “Per favore”, ma ce l’avevi negli occhi. Mi avevi regalato tanti piccoli oggetti di bigiotteria: fini, eleganti, che non mettevo mai. Nel pacchetto c’era un brillantino piccolissimo, con una catenina sottile. Volevo ripetere “Ma lo sai che non mi piacciono le cose piccole”, ma mi sentii sopraffatta da un’emozione nuova, come un naufrago che trova l’approdo.
 
Successe il giorno dopo. Non ho mai voluto sapere come e perché. Non so se ancora t’ho perdonato d’avermi lasciata sola. Non dovevi tradirmi così. Sopravvivo dentro il tuo sguardo. Se la mattina ancora mi alzo è perché nei miei occhi – ormai secchi, non ho più lacrime – tornano i tuoi. Ho perfino imparato a sorridere ancora – qualcuno pensa che t’ho dimenticato – e intanto sono un cumulo di macerie. Un terremoto mi ha squassato.
 
Ho lasciato la macchina giù nello slargo vicino alla chiesa di San Giovanni e ho fatto a piedi la salita – cimitero è una parola insopportabile, meglio l’apnea di camposanto – tra gli ulivi, i fichi d’india e gli oleandri. La frutta martorana, assaggiata a colazione, mi risale in bocca col sapore di sorbe acerbe.
Dal cocuzzolo della collina si domina lo Stretto, da un capo all’altro dell’orizzonte. Attraverso la folla silenziosa fino alla tua tomba. Poi ridiscendo, dissolta e lieve, con nel vento leggero l’eco della tua voce. E mi sento come quando, dopo ore di tempesta, il mare alto che sbatte violento sulla riva si placa in trasparenze cristalline.