mercoledì 31 ottobre 2012

La nuova Calabria



Dal 1 gennaio 2014, la Calabria sarà composta da due Province, Catanzaro - con cui ritornano Crotone e Vibo - e una città metropolitana, Reggio.
 
Questo è quello che avevo scritto ieri su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/42146-province-vorrei-una-calabria-alla-menenio-agrippa.html di fronte all'agitarsi di molteplici trensioni relativi alla redistribuzione delle Province calabresi:
 
C’è un mio caro amico convinto che la mia capacità di analisi politica sia limitata da una certa dose di “ingenuità mediterranea”. A parte quel “mediterranea” – che mi fa venire subito in mente Ulisse che assesta le vele della sua nave-zattera che sale e scende sulle onde – non ho dubbio alcuno che lui ne capisce infinitamente più di me e, infatti, è capace di leggere con chiarezza razionale la più delirante trama degli eventi politici. Eppure.
 
Eppure. L’attenzione a ciò che è – gli interessi delle grandi forze, i piccoli egoismi dei singoli – è ambito che dovrebbe essere lasciato alla Sociologia. La Politica dovrebbe essere lo slancio che va da ciò che è a ciò che “deve” essere: insomma, il movimento che – con gli opportuni assestamenti, limature, obblighi e convincimenti – indirizza gli interessi delle grandi forze e gli egoismi personali in un superiore interesse collettivo.
 
Naturalmente, questo sotteraneo kantismo – la legge morale in me, il cielo stellato su di me è, per me, la più bella frase di tutta la filosofia (insieme alla wittengensteiniana ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere) – conferma la mia propensione “all’astrazione”, ma tant’è.
 
Tutta questa promessa per dire semplicemente una cosa. Mi posso mai stupire che, sulla vicenda della riorganizzazione delle Province, inizi, in Calabria, una lotta ai coltelli di tutti contro tutti, con rivendicazioni di interessi vari, espliciti ed impliciti, con politici pronti a impugnare questa o quella bandiera locale?
 
Certo che no. Non mi stupisco.
 
Ma tutto ciò non mi piace.
 
Nella storia recente della Calabria, c’è già un dramma – una vera e propria frattura – consumato all’inizio degli anni 70, con le scelte che portarono alla rivolta di Reggio.
 
Ora che ci troviamo a fronteggiare l’organizzazione di una “città metropolitana” – ma come? – e un riassestamento di Catanzaro e Cosenza con le quasi-ex province di Vibo e Crotone, vorremmo provare a ricordarci, alla Menenio Agrippa, che se un piede va in cancrena non è che le braccia se la passino splendidamente?
 
 
Mi auguro che la decisione odierna del Governo contribuisca a dare ai calabresi la consapevolezza che devono lavorare per la Calabria, in un'Italia rinnovata ed europea.
 
 
 
 

domenica 28 ottobre 2012

Il ponte di Ognissanti (con invito a come passarlo)



Un sorriso, come un tulle rosato sulla seta, le si fissò nello sguardo il giorno in cui si decise la data del matrimonio di Francesco. Tutto le divenne lieto e leggero.

Cinquantenne, Rina insegnava religione in una scuola elementare della periferia reggina. Le colleghe e le giovani madri la consideravano un po’ antica, ma ricorrevano a lei per ogni consiglio e conforto. Con lei ci si sentiva sempre nel tepore d’una cucina con tutti i fornelli accesi.
 
Francesco era il suo unico figlio. Da giovane s’era adeguata alla più forte volontà del marito, cui uno sembrava già troppo, e quando era ormai troppo tardi le era dilagato un cruccio, che per anni le aveva avvelenato il sonno. Francesco, il primo sempre della classe, cresceva troppo timido e isolato, la tendenza ad una sottile malinconia.
 
Improvvisamente, però, l’ultimo anno del Campanella, aveva cominciato a frequentare una ragazza di qualche anno più piccola. Figlia di un alto funzionario statale da poco trasferito in città, Claudia era carina, gentile e sveglia e Rina l’accolse a casa col cuore felice di chi intravvede il proprio destino procedere, nonostante tutto, ad un pieno e positivo compimento.
 
Con una miriade di piccole attenzioni – tutta la sua intelligenza ed esperienza di vita convergenti ad un unico obiettivo – stese sulla ragazza un’impalpabile rete d’acciaio, facendone un’altra figlia. La riempiva di regali – un oggetto d’oro, una pietra preziosa, un monile griffato ad ogni occasione; la coinvolgeva nelle sue attese d’una brillante carriera di Francesco; la portava con se a scegliere regali; le chiedeva consigli di vestiti e di trucchi.
 
Francesco si laureò nel più breve tempo possibile ed ebbe la fortuna, grazie al discreto appoggio del padre di Claudia, di trovare rapidamente lavoro. La data delle nozze venne decisa il giorno stesso della laurea di lei.
 
Il pranzo della domenica – a cui Claudia arrivava con i dolci della pasticceria Mimosa o, per maggiore felicità di Rina, con una torta fatta con le sue proprie mani – divenne una riunione organizzativa della cerimonia, puntigliosa in ogni particolare. Fiorirono quindi nuovi impegni per Rina e Claudia, cui si aggiunse la madre di lei, fino ad allora rimasta come di attesa di vedere come andasse a finire.
 
Quando Claudia mostrò impercettibili segnali di stanchezza, piccole inquietudini, attimi di nervosismo, Rina spinse “i miei ragazzi” a prendersi qualche giorno di vacanza, approfittando del ponte di Ognissanti. Questa sorta di viaggio di nozze prima della firma del registro di matrimonio – che in altri tempi le sarebbe sembrato uno strappo insopportabile all’ordine in cui necessariamente contenere la confusione della vita – diventava un dettaglio trascurabile ora che la meta era vicina. Ci sarebbero stati presto nipoti: che lei avrebbe allevato, lasciando a Claudia intatta la sua gioventù.
 
La meta scelta dai “miei ragazzi” fu Barcellona e Rina regalò a Claudia una busta con, interi, i suoi due ultimi stipendi: l’ultimo regalo in qualità da fidanzata, prima della sorpresa che l’aspettava la mattina delle nozze. Dalla Spagna i quasi sposi inviarono messaggi felici. Pareva che il cellulare di Rina dovesse esplodere da un momento all’altro, incapace di contenere tanto giovanile, innamorato entusiasmo.
Con appena qualche minuto di ritardo, l’aereo atterrò al Tito Minniti in quell’ora preziosa prima del tramonto in cui il cielo reggino si pennella di tutte le sfumature del rosa. Claudia era rilassata, luminosa e sorridente. Sarà bellissima con l’abito bianco, pensò Rina, mentre col marito la accompagnavano a casa: il tempo di rinfrescarsi, si sarebbero rivisti a cena.
 
Quando un’ora dopo, Rina vide il figlio rabbuiarsi alla lettura di un sms pensò a qualche problema di lavoro. Ma era la secca, irrevocabile, fine del fidanzamento. Claudia diceva che aveva un altro, l’avrebbe sposato tra due mesi. Rina ne fu stordita. E non capì più nulla, se non che toccava a lei disdire la chiesa. E il fioraio. E la sala. E il pranzo. E le bomboniere. E chissà quant’altro.
 
 
 
Per chi sta da quelle parti durante il ponte di Ognissanti un bell' appuntamento nel nome di  Gerhard Rohlfs, che così tanto ci ha amato, dedicando una straordinaria attenzione alla nostra lingua (alle nostre lingue):
 
« A voi fieri calabresi
che accoglieste ospitali me straniero
nelle ricerche e indagini
infaticabilmente cooperando
alla raccolta di questi materiali
dedico questo libro che chiude nelle pagine
il tesoro di vita
del vostro nobile linguaggio »
 
 
 

sabato 27 ottobre 2012

Calabria e terremoti: dobbiamo imparare a conviverci



Che sta succedendo?
Avevo una quindicina d’anni e non era la prima volta che mi capitava di sentire una scossa. Ma era notte, dormivo, e non fui subito certa che quel piegarsi della libreria sul mio letto non fosse solo un sogno.
 
Non è niente, dormi, è solo un terremoto – mi rispose dall’altra stanza mio padre, esperto abbastanza da ritenere, a quel livello di sommovimento, stabile la casa. Ma alla seconda scossa, ci alzammo e passammo il resto della notte in macchina. C’era tutto il paese per strada e mio nonno e gli altri anziani raccontavano del grande terremoto: gli animali che si erano lamentati per primi, i crolli, le morti, il mare che si alzò fino a metà vallone.
 
Una storia che avevo sentito centinaia di volte e altrettante avrei ancora sentito. Ma quella notte mi fu chiaro come non solo la nostra storia, ma anche il nostro carattere, certe nostre grandezze e certi nostri limiti, stanno dentro l’angoscia, il senso d’incertezza, l’inquietudine di questo tremendo flagello che è il terremoto.
 
Non ci fossero stati, sulla stampa di questi ultimi giorni, e di ieri soprattutto, gli scandali relativi al terremoto dell’Aquila, forse la scossa del 5 grado nel Pollino (dopo circa 2.200 scosse di minore gravità in due anni) non avrebbe guadagnato il primo posto nei titoli dei più importanti quotidiani nazionali in versione online.
 
Potrebbe –dovrebbe – essere arrivato il momento di fare i conti con la geofisica della nostra storia e, quindi, di imparare a convivere con gli -inevitabili- terremoti. In maniera che la paura, comunque grande, quando la terra si mette a ballare possa essere affrontata con la consapevolezza che non ci saranno morti e i danni saranno molto contenuti. Lo impone anche la solidarietà nei confronti delle molto provate popolazioni del Pollino.

 
Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/41930-calabria-e-terremoti-un-destino-inevitabile.html il 26 ottobre in relazione alla forte scossa registratasi nella notte con epicentro a Normanno
 
foto tratta dalla pagina fb di Reggio era

mercoledì 24 ottobre 2012

Fondata sul Lavoro


Ho sempre avuto una grande passione per la Costituzione italiana. Non ho mai particolarmente amato l’articolo 1. Avrei evitato il “fondata sul lavoro”. Se proprio bisognava darle una fondazione, avrei detto: “fondata sulla Costituzione”, ovvero sulle regole democratiche che il Paese si stava, finalmente, dando.
La faccenda del “lavoro” l’ho sempre sentita, negli accordi perfetti dei suoi principi, in qualche modo, con un sotteso di “stonato”.
Innanzi tutto perché, comunque, ci sono (saranno) sempre intere categorie che non lavorano (anche se hanno, magari, già lavorato o, si spera, lavoreranno, vecchi, malati, bambini).
Poi, perché ho avuto modo di pagare sulla mia stessa pelle le garanzie non date a chi ufficialmente non lavora, ovvero lavora senza percepire stipendio, rispetto a chi ufficialmente lavora, ovvero percepisce uno stipendio. E oggi troppi giovani, preparati e competenti, non hanno – checché ne pensi chiunque – NESSUNA possibilità di lavorare, con enorme spreco sociale della loro intelligenza, sensibilità ecc.: una STRAGE nazionale di proporzioni non inferiori alla morte dei giovani nella prima e seconda guerra mondiale.
Tre, perché non ho mai del tutto capito il fatto che delle due maledizioni bibliche – il “lavorerai col sudore della fronte” rivolto agli uomini” e il “partorirai con dolore” rivolto alle donne – il lavoro sia via via diventato un’affermazione di “autorealizzazione” e la maternità una “limitazione” della stessa. Oggi, poi, che le donne non possono avere né l’uno né l’altro…
 

 

 

sabato 20 ottobre 2012

Carmela e la mancata educazione sentimentale


 
Quella economica – pesante e drammatica – non è l’unica.

Ce sono altre: crisi non meno, se non più, gravi.
 
C’è una crisi morale proliferata in diffusa corruzione. Quello che non andrebbe perdonato mai alla classe dirigente degli ultimi decenni è aver favorito, ampliato, non sufficientemente combattuto l’interesse privato, il sopruso, l’arroganza dei forti. Personalmente, non perdonerò mai il (tantissimo) surplus di fatica che ho dovuto fare a scuola solo per (provare a) parlare di temi relativi alla cittadinanza attiva di fronte al marciume che si è via via accumulato nel nostro paese.
 
C’è una crisi educativa, che, ad analizzarla tutta, porterebbe ad una lunghissimo elenco di esemplificazioni.

Con, all’interno, un’emergenza di mancata educazione sentimentale, il cui effetto più sanguinoso è nell’ecatombe di donne uccise dai partner (siamo arrivati a 100), ma che è anche causa di orrori tipo i bambini violentemente contesi tra genitori in lite.

Ci sarebbe una riflessione urgente, urgentissima da fare: sull’aria (quella delle idee; della cattiva tv; dei giornali che inseguono il nulla… ecc. ecc.) che tutti noi respiriamo: sull’inquinamento dei pensieri, dei sentimenti che colpisce soprattutto chi non ha sufficienti strumenti culturali e/o di saggezza morale per contrastare il troppo brutto che continua a prosperare.
 
Il bel volto di Carmela Petrucci, cui sono stati tolti i tanti giorni che avrebbe potuto vivere, dovrebbe essere per noi il coltello che, girandosi e rigirandosi nella carne, ci faccia - finalmente - iniziare a VEDERE.

mercoledì 17 ottobre 2012

All'alba

 
 
Luna
di bianca trasparenza
diafana
nell’esplosione
di un’alba
azzurra
come dev’essere l’azzurro –
lì, in fondo alla strada,
enorme,
in alto sulla destra…
La festa dei gabbiani si concede
in bianche trine di ricami.
Sulle labbra già aperte
all’orizzonte di luce
 – l’isola
come un sogno verde-azzurro –
l’urlo tace.

Lo stupore della bellezza consola.

martedì 16 ottobre 2012

La notte di Reggio Calabria

 
 
Qualche navitta, tanto levigata che il legno sembra, al tatto, di burro. Qualche fuso ben tornito, qualche pettinessa, una o due belle conocchie (chissà perché hanno lo stesso nome delle cunocchie dei fichi). E’ tutto quello che, nella mia famiglia, si è salvato del grande telaio, ‘u tularu, dove, non più tardi delle tre del mattino, nello stanzone grande, sotto ‘u lastricu – lo stesso dove si faceva il pane e ad una parete erano addossate le grandi giare dell’olio e, all’altra, c’era una tela dipinta con una Madonna – si sedeva la mia bisnonna. Per ore e ore, i suoi piedi s’alzavano e si abbassavano armoniosi, ritmando il lento procedere dei teli di cotone, di lino o di seta. I figli più piccoli lavoravano le bertole. Quello che poi sarebbe diventato mio nonno, prima di avviarsi in campagna col padre, incannava le dodici cannelle del cusuferro, aiutato dalla sorella più grande; alla più piccola, la più simile alla madre, venivano affidati i lavori di fino. Diventate grandicelle, a entrambe sarebbe magari capitato che un contadino le chiedesse in moglie omaggiandole di un fuso lungamente cesellato dalle sue stesse mani: Beddha ca vi la fici la cunocchia,/è janca e russa comu siti vui/e ‘ntornu ‘ntornu vi la ricamai/ddha intra misi li beddhizzi toi.
 
Agli inizi degli anni settanta – travolto il paese, ben oltre il Paese, da una mutazione antropologica, iniziata lentamente nel secondo dopoguerra e poi quasi improvvisamente esplosa in forme di autodistruzione del proprio passato e della stessa struttura geofisica del territorio – il telaio venne fatto a pezzi e usato come legna da ardere.
 
In quello stesso periodo vennero gettate nella spazzatura le pezzane e la macina di pietra, che per secoli aveva frantumato grano e legumi per la famiglia, fu usata per le fondamenta di una casa nuova.
La grande cultura degli avi, inconsapevole di sé, venne dispersa, in nome di una maggiore facilità di vita, che non si è mai trasformata in nuova ricchezza, dagli stessi che avrebbero dovuto orgogliosamente difenderla.
 
La colata di cemento – che sulla spiaggia fece rapidamente sparire canneti, brucare e sabbia e, sul bagnasciuga, vide apparire una schiera di villini – incrinò per sempre un’armonia paesaggistica secolare, diventando nel tempo, con la connivenza di tanti, un’erta montagna di volgarità morale e di illegalità diffusa.
 
Siamo, ora, ai gironi finali (l’ultimo sarà la dichiarazione del dissesto?) di un inferno costruito sull’incapacità di sostituire, alla fine di una civiltà contadina fatta di stenti e miseria, ma anche di cultura (fatta, insieme, di coltivazione dei campi e di sapienza esistenziale che non aveva niente da invidiare ai sapientoni dei libri), di onestà e forza morale, una civiltà più elevata e giusta per diffusione d’istruzione, economia produttiva, maggiori e più ugualitarie possibilità per tutti. Un lunghissimo vuoto in cui l’economia non è mai decollata in alcun settore e la politica, salvo eccezioni che stanno nella memoria di tutti, non ha innestato il cambiamento, l’ingresso nella migliore modernità socio-economica europea (ormai ragionare in una dimensione meno che continentale è restare in ambito provinciale) ma si è degradata al mantenimento del proprio potere, patteggiando con un’ampia parte della cosiddetta società civile una miriade di microinteressi di persone e di gruppi.
 
Arrivati al fondo, si hanno sempre due sole scelte. O, che è la cosa più facile, ci si lascia inghiottire dal baratro o si fa lo sforzo per risalire. O si muore, insomma o, attraversando la fatica necessaria, si rinasce.
 
Tertium non datur, neppure per la Reggio post scioglimento del Comune.

Foto tratta dalle illustrazioni del Museo di Etnologia e delle Tradizioni Popolari di Palmi
 
 
 
 
 
Su Zoomsud è stato anche pubblicato Umberto Eco e la "sua" Milano "sturm und 'ndrangheta" http://www.zoomsud.it/commenti/41134-umberto-eco-e-la-qsuaq-milano-qsturm-und-ndranghetaq.html
 
 
“Di quel che accadeva al Sud si sapeva poco e si guardava a Roma come a una sentina di vizi… (…) Era Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e faceva il carnevale in una data tutta ma poteva mandare al governo della città i socialisti storici. (…) Milano che non voleva prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, si è ridotta a prendere ordini dal peggio del profondo Sud”.
 
Parole di Umberto Eco in un lungo racconto che si apre sulla prima pagina di Repubblica di oggi (13 ottobre) con il titolo “Questa mia povera città, sturm und ‘ndrangheta”.
 
Lascio ad altri, più preparati di me, le analisi su chi ha “inquinato” chi, su chi ha “dato” e chi ha “preso” ordini, se è il bossetto di turno che ha messo in riga le forze produttive milanesi o le forze produttive del nord hanno utilizzato i capetti della criminalità organizzata “meridionale” nella sua triplice declinazione (mafia, camorra, ‘ndrangheta).
 
Sommessamente – so bene che alcuni dei miei amici diranno che, in fondo, non è che moralismo da veterocattolicesimo – vorrei dire: e se gli italiani, da Nord a Sud, da Est ad Ovest e viceversa facessero un serio esame di coscienza sulla loro singola morale (come lavoravano; come usano beni pubblici; come si rapportano a chi intende coinvolgerli in azioni che sono buone solo alle loro tasche ecc. ecc.)?.
 
Ci sono scelte che stanno sulle teste di tutti i singoli e drammi che ho ben presente a partire da quello di chi, non avendo lavoro, è facilmente ricattabile per mettere insieme il pranzo con la cena. Ma, se trovassimo il coraggio di ripartire dall’etica (“non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te”, forse basterebbe) non sarebbe, per tutti meglio?
 
“Che ci è successo?” si chiedeva in lacrime Amalia in “Napoli milionaria”, quando la vita le ha rinfacciato il suo stesso degradarsi morale. Il grande Eduardo le rispondeva concludendo “Addà passà ‘a nuttata”.
 
Ma la notte non passa da sola. Ha bisogno che in tanti facciano un po’ di luce.

sabato 13 ottobre 2012

In lode di Amazon Italia


 
 
Fino al primo pomeriggio di giovedì 11 ottobre che esistesse uno scrittore chiamato Mo Yan, non lo sapevo neppure.
 
Qualche minuto dopo aver letto, su internet, che è andato a lui il Nobel  2012 per la Letteratura stava già sul mio Kinde l’unico suo testo a ciò disponibile su Amazon, la sua autobiografia, Cambiamenti.
 
Di conseguenza,  qualche ora dopo, ho potuto farmi una prima, sommaria idea, di chi sia e come scriva Mo Yan.

 

 

venerdì 12 ottobre 2012

Il cuore come un cachi maturo


 
I suoi cassetti erano accozzaglie disordinate di biancheria intima e gli armadi avevano strani impilamenti di coperte, maglioni, camicie e pantaloni, disposti – neppure lei avrebbe saputo spiegar come – in verticale: bastava un niente per far tracollare tutto. Due o tre volte l’anno, Rosetta metteva in ordine e ne usciva soddisfatta dal vedere come la ricomposizione dello spazio sembrasse dare alle sue cose nuova aria. Ma durava poco. Nella quotidianità, già l’idea le pesava: avendo già troppe (auto)costrizioni della mente, l’ordine in casa sarebbe stato una goccia intollerabile.
Rosetta non ricordava neppure tutto ciò che aveva e si stupiva, mentre tirava fuori un maglione, di ritrovare una bella camicia usata solo una volta o una gonna comprata chissà quando. Sapeva, però, che in fondo al terzo, dall’alto, cassetto interno dell’armadio, avvolti in una tovaglia di tela, c’erano tre fazzoletti di lino, dal finissimo ricamo. Piccoli quadrati di stoffa che più che all’inizio del secolo scorso appartenevano agli ultimi anni di due secoli fa ultima traccia di una sua bisnonna che l’aveva avuti in dote dalla suocera, arrivata nel reggino dal bovese. Sapeva, anzi, che di quei fazzoletti, non ne rimaneva che uno.
Aveva sempre fatto molti regali, Rosetta. Fin da ragazza, quando – non avendo nulla da poter comprare – la domenica raccoglieva mazzolini di violette o fiorellini di campo per portarli la mattina dopo alla compagna di classe con cui parlava di più. Lo faceva con uno spirito in cui l’omaggio all’amica si confondeva con il desiderio di farsi accettare: come se le fosse necessario pagare un pedaggio per ricevere attenzione.
Crescendo, quando si trattava di regali dovuti, nascondeva il fastidio scegliendo qualcosa che le non piaceva granché, magari un libro di successo di un autore che non amava. Ma più spesso bastava che le si rivolgesse una parola, un’impercettibile cortesia, per farle nascere l’urgenza di un regalo importante e costoso: scelto con estrema cura e carico di valenze simboliche. E, una volta che iniziava, si sentiva in obbligo di continuare: perché il contrario le sarebbe sembrato come mettere fine a quella relazione.
Era ormai adulta quando una collega – che, in omaggio ad un piccolo favore, s’era ritrovata un anello d’oro bianco con incastonata una perla – le fece osservare che la sua eccessiva generosità metteva a disagio. Ne ebbe uno shock che la portò a non gettarsi sempre, immediatamente, in una girandola di regali d’indubbia importanza.
In due occasioni, però, non era riuscita a frenare l’impulso a dare qualcosa di sé, privandosi, con i due fazzoletti, di una parte del suo passato perché due amiche in difficoltà potessero cogliere il conforto di un di più di bene. Era successo, ad alcuni anni di distanza, ma sempre d’ottobre, quando il cielo reggino è così dolce che in certi giorni il cuore si fa morbido più di un cachi maturo – che, non per nulla, il dialetto chiama al femminile: ‘a cachissa. In entrambi i casi, consapevole che stava compiendo un gesto incauto e di cui si sarebbe potuta pentire, ma quasi certa anche che quegli oggetti, in famiglia, avevano un valore solo per lei, che lei sola avrebbe pagato lo scotto di una perdita.
Disperse, poi, le due amiche, più d’una volta Rosetta s’era sentita afferrare al petto da una fitta immedicabile per aver così sprecato un ricordo di famiglia che avrebbe dovuto lasciare alla generazione successiva. Amarezza nei confronti di chi l’aveva delusa e rabbia verso se stessa s’erano col tempo stemperati. Ma quel piccolo vuoto, quella mancanza continuava a lhttp://www.zoomsud.it/commenti/41071-torna-anche-qil-giudice-meschinoq-ma-la-calabria-non-sa-.htmlavorare in sottofondo nella sua mente. Come una talpa che scavava gallerie. O un veleno che, iniettato a piccole dosi, prima d’accorgersene, t’ha ormai debilitato.
Di tanto in tanto le tornava in mente un monito evangelico. E, sebbene sentisse esagerato applicarlo al suo caso, tanto che mai l’avrebbe detto a voce alta, in un silenzio chiuso a qualsiasi moto di muscolo, quasi urlava contro di sé completando: “non date le perle ai….”
 
 
 
Su Zoomsud sono apparsi anche:
 
 
 
 

giovedì 11 ottobre 2012

La fiera di Francoforte e i romanzi stampati in Calabria

 
 
“La crisi dei consumi colpisce pesantemente il mercato del libro in Italia che nel 2011 aveva avuto un -3,7% nel giro d'affari e nei primi nove mesi del 2012 peggiora ottenendo un -8,7%. Per la prima volta dal 2007 cala anche la lettura: oggi sono 25,9 milioni gli italiani che leggono almeno un libro, 723 mila meno del 2010. Lievi segni positivi per il mercato ebook. Questo dai dati del Rapporto sull'editoria in Italia, a cura dell'Ufficio studi Aie, presentato oggi alla Fiera di Francoforte”.

Questo secco comunicato dell’Ansa del 10 ottobre, giorno dell’inaugurazione, nella città tedesca, della principale fiera libraria del mondo individua, giustamente, il fattore principale della diminuzione di vendite di libri in quella crisi economica che ha tagliato un po’ tutte le spese degli italiani. Nello stesso tempo registra però l’aumento, lieve ma significativo, della vendita di ebook, che corrisponde alle esigenze di un pubblico che, in qualsiasi momento e da qualsiasi sperduta località, può caricare sul suo Kindle il libro che intende leggere: benedetta Amazon,  che libera dall’incombenza di dover andare in libreria, magari tornarci, caricarsi di un peso e così via.


In epoche di magra, ancora più forte dovrebbe farsi quella selezione dei testi, che appare, invece, piuttosto carente: ci sono troppi libri, e, soprattutto, troppi libri la cui qualità non raggiunge la suola delle ballerine (nel senso di scarpe). Un potenziale lettore di medio livello, che non legge le pagine culturali dei quotidiani più attenti ai libri e che non è accompagnato nella scelta da librai preparati (l’ignoranza di una parte dei commessi di alcuni megastore consentirebbe la pubblicazione di un libro di strafalcioni), magari dopo una serie di esperienze che gli hanno – non si può neppure dire: regalato, perché l’ha pagato, spesso troppo – una buona dose di noia, leva mano e si gratifica con un film in compagnia, o una cena con gli amici.

Chiaramente la tematica potrebbe essere ben più ampia, ma mi limito ad alcune considerazioni su alcuni romanzi pubblicati da piccole case editrici calabresi: naturalmente, non intendo generalizzare, ma riferirmi a specifici casi (che non citerò).
 

Mi capita di leggere romanzi stampati in Calabria che – e, nell’attuale panorama letterario italiano, neppure questo è scontato – hanno una storia, magari pure interessante; ma che si possono leggere solo per professione, per affezione a questo o a quell’autore, per interesse alla terra di cui parlano.

Che cos’è che rende gradevole (e intendo per gradevole non il banalmente piacevole, ma quell’insieme fatto di interesse, coinvolgimento, nuovi pensieri che fioriscono, emozioni ecc. ecc.) la lettura di un libro? Una buona trama, uno stile adeguato alla trama, una lingua che, sulla carta o sullo schermo, diventi il timbro di voce giusto per quel racconto. E il ritmo giusto: non troppe pagine, né troppo poche; l’equilibrio tra le varie parti della narrazione; la definizione dei personaggi. E’, insomma, tutto quello che estranea per qualche ora il lettore dal proprio mondo e lo fa camminare e muovere e respirare in un altro tempo e in altro spazio (se, per avventura, lo spazio e il tempo sono gli stessi del lettore, quest’ultimo deve essere messo in grado di vederli come non li ha ancora visti), concentrato e teso a cogliere lo snodarsi di altre vite che, buone o cattive, acquisiscono, pagina dopo pagina, lo status di conoscenti, amici, familiari della propria città interiore.


Tornando ai romanzi calabresi di cui sopra, la mia sensazione è che manchino di adeguato editing. Intendiamoci: non ho la passione per gli editor, sono convinta che, con loro, non avremmo avuto né Dante, né Tolstoi, né Mann come li conosciamo noi. Ma. Ma un libro ha bisogno – forse non sempre, ma certo non poche volte – di scritture e riscritture, di tagli e rimpolpamenti, di revisioni e ancora revisioni. Ecco: molti romanzi che ho letto in questi anni, pubblicati da piccole case editrici calabresi, a me hanno dato la sensazione di potenzialità gettate alle ortiche.

Perché, anche se si riuscisse a fare miracoli di distribuzione, i suddetti non reggerebbero al passaparola: sono decisamente troppo lunghi, limitati da quell’urgenza del comunicare qualcosa (una convinzione, una scoperta) che fa l’effetto irrisolto dell’acqua e zucchero, o dell’acqua e sale, se quest’ultimo è rimasto sul fondo della tazza in cristalli non sciolti; con una sproporzione più o meno vistosa tra le parti; ecc. ecc. Sembrano soggetti bellissimi, ma che andrebbero asciugati, equilibrati, rivisitati. In una parola: riscritti. Più d’una volta (se necessario)


Ed è un vero peccato. Più d’una volta mi sono trovata di fronte a storie – l’ho già detto – che riscritte avrebbero (avuto) una ben più ampia dignità. Che tutto questo non sia (stato) fatto è, probabilmente, un problema di soldi: chi paga gli editor? Ma ho un dubbio in più: che, almeno talvolta, almeno in alcuni casi, non sia solo un problema di mancanza di soldi, ma ci sia anche un surplus di provincialismo. Come se non si credesse davvero che quella storia, quel romanzo, può davvero ambire a diventare uno dei (pochi) romanzi acquistati dagli italiani.

martedì 9 ottobre 2012

Reggio Calabria: sciolto il Consiglio comunale; si salvi la città


 
"Un atto sofferto, fatto a favore della città". Così il ministro Cancellieri ha comunicato la decisione del Consiglio dei Ministri di sciogliere il Comune di Reggio per contiguità con la ‘ndrangheta.

E’ una sconfitta pesante per tutti.  Per i colpevoli di questa situazione; per quelli che hanno, in questi anni, chiuso troppi occhi e troppe orecchie; per gli incolpevoli che non hanno avuto forza e/o possibilità di contrastare tutto ciò che ha prodotto lo sfacelo oggi sanzionato.

Una sconfitta che, mi auguro, possa diventare un’opportunità, tanto che, di qua a qualche tempo, si possa dire dell’8 ottobre 2012, “eppure, questo è un giorno di vittoria…” (PPP).

Che sia la leva, insomma, questa decisione, perché i reggini ritrovino la dignità di appartenere ad una città che, nel suo dna profondo, è “bella e gentile”.

domenica 7 ottobre 2012

Domenica d'ottobre


 
 
Chissà se il fascino di un melograno sgranato, di una margherita sfogliata, ha qualcosa a che fare con un rosario. O, meglio, se una preghiera di sistole e diastole – continua ripetizione del battito di ciglia che nasconde lacrime e dello schiudersi in sorriso delle labbra – è in qualche modo metafora di tutto ciò che è chicchi o petali.

Qualche schiocca di sorbe c’è e anche qualche kaki. Ma il mercatino dei contadini nella piazza della chiesa, affollato di gente che prova a portarsi a casa qualcosa di buono a prezzi convenienti, è sempre meno ricco. Conseguenza (anche) di un clima che sembra aver perso orientamento. Fa ancora caldo, troppo caldo. E se in città è gradevole un autunno quasi estivo, (e chi fa ancora il bagno a mare se ne rallegra), nelle campagne la terra soffre troppo la carenza d’acqua piovana.
 
 
 
Questi sono i miei ultimi interventi su Zoomsud:

San Leo, Pellaro (RC): Quando le erbacce ricoprono la sto
ria
 
I giovani che vogliono fare politica: dove si formano?
 
Carmine Abate, la Calabria che piace. E che vende
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

venerdì 5 ottobre 2012

Gallina 'mbasunata

 
Le uova ancora calde nella paglia
strepita, starnazza. Se la rincorri
goffamente sfugge in rumorosa
confusione di saltelli e svolazzi.
 
Poi s’acquatta, le zampe piegate
al corpo restringe le ali, pettina
le penne arruffate, il capo rintana
nel collo pulsante: senza più un verso.
 
Si ‘mbasuna. Quieta come tortora
o colomba o altro povero animale
umilmente consente al suo destino.
 
In quel gesto vorrei riconoscermi.

mercoledì 3 ottobre 2012

Oratorio civile per Roberto Dinacci - Voci per un ragazzo speciale

 
 
C’è un punto che il muro è basso, non è difficile scavalcare. Nel buio, rischiarato appena da una luna lontana e dai lumini perenni, c’è uno strano senso di pace davanti alla tua tomba. Non mi piace lasciarti solo la notte. D’altra parte, ogni volta che c’è stato bisogno, mi hai vegliato tu. Ti ricordi quel giorno che svenni per strada e stavo lì sul marciapiedi e nessuno voleva avvicinarsi: “Chillo è pazzo… magari pure drogato”? Tu mi caricasti in macchina e mi portasti in ospedale e hai insistito, fermamente, dolcemente , finché non m’hanno visitato e fatto le analisi. Non ci conoscevamo quasi, ma dopo tu mi hai insegnato a mettere un poco d’ordine nella mia vita strapazzata.
Sapevi tutto. Leggevi, ti informavi. E continuamente organizzavi incontri. Avevi una mente veloce e acceleravi con frenetica pazienza la nostra lentezza. Ma c’erano cose che proprio non capivi. Fino alle prime ore dell’alba, chiusi nella tua macchina, l’umido che entrava nelle ossa, provavo a spiegarti quanto falso e quanto male c’era intorno a te, e gli imbrogli e le cattiverie. Tu sgranavi gli occhi e sorridevi. E mi facevi credere che un altro mondo fosse possibile se cominciavamo a fare noi le cose giuste senza mai arrenderci: con serietà, cercando prima di aiutare il prossimo e poi tutto il resto.
T’eri messo in testa che dovevo fare un lavoro, me ne trovasti uno: scaricavo i pacchi in uno di quei grossi supermercati persi in un enorme vuoto che uno si dice: non ci verrà mai nessuno, e invece era sempre pieno di gente. Non è che mi dessero tanto e neppure avevo tanta voglia d’andarci. Ma tu venivi a prendermi la mattina, prima di cominciare il tuo, di lavoro e, se non potevi, facevi tante di quelle telefonate, finché mi sono abituato ad alzarmi e andare. Insistevi, ma insistevi gentile. Tutto quello che so l’ho imparato perché quando combinavo qualcosa di buono eri felice come un bambino.
Quando restai incinta, mi sentii perduta perché non avevamo una lira e lui aveva pure perso il lavoro. Io il bambino lo volevo, in casa dicevano che ero pazza. Tu ci hai portato in un centro commerciale e hai comprato tutto: la culla, il passeggino, il biberon. Non volevo approfittare, tu sorridevi: deve essere bello, questo bimbo, che gli farò sarò da padrino. Scegliemmo alcune tutine: rosa no e neppure azzurro, non sapevo ancora se era maschietto o femminuccia, presi tutte cose gialline e verdine. Quando lei è nata non c’eri più; la madrina l’ha fatta un’altra ragazza che pure a lei avevi regalato un corredino.
Che strano non sentire la tua voce. Mi ricordo tutto di te, ma la voce non riesco più a sentirla. Eppure tu parlavi continuamente. Sempre a cercare di convincermi. Battevi sempre su due punti: studiare e impegnarsi per la collettività. Citavi Gramsci: “Istruitevi, abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Organizzatevi, abbiamo bisogno di tutta la vostra forza” oppure Berlinguer: “… il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità”.Io all’inizio non sapevo neppure chi erano. Ma tu agivi oltre che parlare e io ti credevo. Ho cominciato a fare politica con te.
Il campetto non c’era, ci mettevamo per strada a dare qualche calcio al pallone. Ci prendevamo tra noi a male parole, era il nostro modo di sentirci vivi, mentre il vento si portava via la giornata e l’altra sarebbe stata uguale. Tu venivi a giocare con noi. Eri il re dei colpi di tacco, ma usavi solo parole pulite, calde e sincere: e lasciavi una scia di: magari si può. Abbiamo ottenuto un campetto. Ci portavi a interrogarci. Forse, per diventare uomini basta farsi le domande giuste. Tu riuscivi pure a rispondere. Ci hai detto tutto, ci hai dato tutto, non hai lasciato niente in sospeso: ora tocca a noi.
Che risate a casa mia, quando passavi a salutare mia madre, mio padre, le mie sorelle e mio zio e la zia che stanno proprio di fronte. Noi siamo gente comune, con una casa comune, potevi certo passare la serata con altra gente, in altri luoghi. E invece stavi qui a cena, attento, premuroso con tutti, un regalino ogni volta alle donne di casa. Ti si notava, ma non facevi pesare niente: né la tua eleganza né il tuo ruolo e neppure le tue conoscenze. Caso mai le mettevi al servizio al momento giusto: con garbo e discrezione. Quando mia madre si sentì male solo perché tu chiamasti il medico giusto s’è salvata.
Ci ho litigato tante volte col mio fidanzato ché perdeva tempo con te. Già uno ha tanti guai da queste parti e pure mettersi a cercare per strada i ragazzi che la strada hanno scelto: ma dico io, non ci riescono i preti e neppure i professori… Ti guardavo male. Un altro si sarebbe offeso alla mia scortesia, tu no. Alla fine capii che portarti appresso i ragazzini a volantinare, e dipingere la sede del partito o a riempire buste di cibo per chi non ne aveva, forse era meglio per tutti: che forse, un giorno, camminare per il paese sarebbe stato più sicuro. Ma tu davvero credevi che la loro vita poteva cambiare.
 
 
copertina di Cecilia Latella per "L'isola di Roberto"
 
Non eravamo mai stati a Roma – tu eri passato a prenderci in piazza un sabato mattina, come avevi promesso, anche eri tornato dal lavoro ch’era già notte. Per le strade della capitale, al Colosseo, ci sembrò di visitare il mondo intero. Tu ridevi e scherzavi insieme a noi. Non parlavi come gli altri. Forse per la voce, ché la tenevi sempre bassa. Litigavi con noi ma senza perdere la pazienza; il tempo sì, lo perdevi appresso a noi. Nessuno pensa che a quindici anni si hanno tanti problemi, grandi come montagne, che pare di non uscirne più e si diventa difficili e non si crede più a nessuno. Tu ci prendevi sul serio. Di te ci si poteva fidare.
In piazza fuori la chiesa ci passavamo ore, la sera, e pure la domenica mattina sul tardi, a bere qualcosa, a sfotterci sui vestiti, i capelli, il peso, o a parlare di televisione e di calcio, di diete e di palestre e dei fatti dell’uno e dell’altro. Tu non mancavi mai. Se non riuscivi a passare prima da casa a toglierti giacca e cravatta ti prendevamo in giro: è arrivato ‘o ministro, ma allo scherzo ci stavi sempre. Stavi lì ore con noi a organizzare feste, a preparare viaggi che poi non si potevano fare e, senza quasi accorgercene, ci portavi a parlare del futuro e di come volevamo la città. Noi, che della città e del futuro ci si potesse occupare non l’avevamo mai pensato.
L’allegria entrava con te. Non c’è uno del paese che non hai portato in questo bar: “Ciao, caro, vieni a prendere un caffè…”, o un dolce, o un gelato… Ti importava tutto di tutti, di tutto ti informavi: Tutto apposto? Discussioni senza fine, e risate. Nessuno conosceva il paese quanto te. Sempre in giro, circondato da persone che avevano bisogno di qualcosa: il tuo sorriso era per tutti. Qualunque cosa dicevi insegnavi sempre, mite e dolce rivoluzionario: e a noi, ragazzi e ragazzini, davi chiavi in mano per vedere le cose in un altro modo.
Nelle stanze del potere, splendido compagno di dissimulazione ironica, dotato di un’incertezza quasi trascendente… Tu non eri un rito, usavi la cravatta per penetrare, per poi parlare con il sorriso, la tua politica era fatta di sguardi e pacche sulle spalle , di frasi spezzate ... di suggestioni, di ue’ fra’ ... Roberto, tu eri Roberto Saviano che parla con Pino Mauro, non lo studia , non lo capisce, lo vive. Tu eri uomo, non sezione; non eri grisaglia ma un’incantevole maglietta Fred Mello.
Come potevo non incantarmi?Ti vedevo per strada sempre circondato di gente, unico punto di riferimento dei giovani, una bandiera. Timido, col rossore facile sul volto, eppure sicuro di dove volevi arrivare. Buono. E sorridente, di un sorriso unico, caldo e rispettoso, generoso e accogliente: soprattutto se qualcuno accettava il tuo aiuto. C’era chi ti diceva troppo ambizioso, ma tutti sapevano che avresti portato in alto il nome del paese. Io ti seguivo da lontano e facevo il tifo per te. E a certe ombre rapide nel tuo sguardo mi chiedevo se era una ferita profonda d’amore a farti dare tanto di te.
Non sapevo né leggere né scrivere, a scuola facevo troppo casino e le maestre avevano detto a mia madre: tenetevelo a casa, che poi gliela diamo la licenza e così il giorno degli esami mi interrogarono e mi chiesero: quanti sono i giocatori di una squadra di calcio? Undici. Bravo. Venni promosso, ma non sapevo niente. Mi hai regalato un libro e una domenica hai cominciato a farmi lezione: mi girava la testa e mi veniva da vomitare, ma tu lì, che mi facevi ricominciare a leggere di nuovo. Sei ore di seguito: quel giorno ho deciso che è bello imparare.

 
Mio figlio me l’hanno tolto i servizi sociali, dicevano che non ero buona a occuparmi di lui, ma come fa una donna sola se a quello la testa non è buona. Stava sempre arrabbiato mio figlio, pronto a litigare con tutti. Neppure in comunità si trovava bene, ma se parlava di te gli ridevano gli occhi. Diceva che gli passava l’ansia perché tu lo guardavi con sincerità. Allora sono venuta a pregarti per lui. Altri non dicono no, ma poi niente fanno. Tu mi hai detto di non preoccuparmi. Non aveva mai voluto saperne niente della scuola, mio figlio. Ancora non capisco come passò con ottimo gli esami al serale.
Da quando mio padre se n’è andato di casa, ho odiato la mia famiglia, pure mia madre che sta sempre nervosa e i miei fratelli, sfrantumati quanto me. Ti ho conosciuto una sera in piazza, mi hai dato da parlare come a un amico e mi hai portato con te in una tipografia a prendere dei libri che avevi fatto stampare per chissà chi. Camminavo nella vita come un cieco con le stampelle o sui pattini a rotelle. Mi hai fatto aprire gli occhi su tutto. Nessuno mi ha dato quello che mi hai dato tu. Sei stato mio fratello, mio padre e pure mia madre.
A un certo punto il tono della voce sale. Capita in tutte le riunioni, anche quelle più tranquille. Tu non urlavi mai. Non avevi cautele a dire, ma ascoltavi paziente tutti: idee precise in testa e una grande capacità di confronto. Avversario leale, pronto a mediare, quando c’era spazio per mediare: se no, no. Le meschinità, i veleni, le volgarità di chi sta in qualsiasi gruppo che abbia o sembri avere un potere, per quanto minimo, non ti appartenevano. Guardavi avanti, come se niente di tutto ciò potesse distogliere lo sguardo dal tuo obiettivo: che, in fondo, poi, era la vittoria che facesse vincere tutti.
Mettevi un cd e andavi. Sempre in giro, sempre in movimento. Sempre a rincorrere i tuoi impegni. Quelli ufficiali non riempivano che una parte della tua agenda. Sempre in ritardo, o quasi. Ma arrivavi sempre. Cavolo, perché volevi, in quelle poche ore che riuscivi a rubare per noi, farci anche vedere il telegiornale o leggere qualche articolo? Ma poi avevi una parola per ciascuno. E se mi toccava qualche manciata di minuti solo per me, ogni rabbia sbolliva perché come una luce mi si accendeva addosso e mi sentivo importante: davvero qualcuno.
“Ce l’abbiamo fatta, eh? eh!”. Quando nei tuoi tentativi di allargare un progetto solidale cercavano di bloccarti, non ti fermavi e cercavi di convincere ancora: senza frasi pesanti, senza accuse, senza rivendicazioni, con umiltà, con dolce testardaggine, con quel tuo tono gentile. E appena uno spazio si apriva, snocciolavi luoghi e situazioni dove era più urgente intervenire. Perché tu stavi in mezzo a quei ragazzi attento a recepire i bisogni e le istanze di tutti e conoscevi bene le pieghe di un territorio in cerca di un riscatto, di una speranza. E ci hai fatto guardare tutti più in là.
Risposte concrete. Ecco io non sapevo cosa volevo e neppure i miei coetanei, ma con te abbiamo capito che quello che serve è qualcosa magari piccolo, ma che ti cambia la giornata. E che la grande politica si fa coi programmi, i progetti e, certo, la lotta ai clan della camorra e alle tante camorre che dominano dalle nostre parti. Ma anche dando il proprio tempo e un po’ del proprio sapere e rinunciando a qualcosa per gli altri. Strana parola la rinuncia, neppure i preti quasi la usano più: ma io t’ho visto fare a meno della nazionale in tv o d’una festa per andare a cercare, in un quartiere malfamato, qualche ragazzo che t’aveva chiamato perché aveva bisogno di un consiglio o di una spalla su cui piangere.
Stupore di incontrare un ragazzo capace di ascoltare, di vedere, di avviare su strade nuove. Con negli occhi la luce di un intimo sogno di giustizia e verità. E nelle parole, nei gesti, nelle azioni, nei silenzi, l’entusiasmo, la tenacia, la pacatezza, il senso di responsabilità, la generosità, la competenza e l’allegria di chi lo persegue come un imprescindibile dovere morale. Stupore nei miei occhi perché, come mai nessuno, riconoscevi il mio lavoro e lo volevi usare: non per la tua carriera, ma piccolo tassello per mettere in relazione pezzi di territorio. Stupore di sapermi vista oltre l’apparire. E ancora stupore, nei tuoi occhi, perché senza parole io sapevo cosa avevi nel cuore.
Il tuo sorriso, la ricerca di dialogo e la sincera voglia di comprendere: questo mi ha subito sorpreso e ben disposto verso di te. Mi hai fatto il dono di farti dare tanto da me ed è stato un piacere alimentare la tua immensa sete di conoscenza e verificare quella tua straordinaria capacità di interazione, passando dall’intuizione, alle idee, alle ipotesi di lavoro, dal nulla ai fatti. Avevi lo stesso sguardo di fiducia incondizionata per tutti. Ci davi l’entusiasmo di credere che si poteva fare e si faceva davvero. Con audacia organizzavi la speranza dove non c’era nessuna ragione per credere a un domani.
Molte persone pensano che siamo dei bravi ragazzi e che non volevamo fare ciò che abbiamo fatto, ma tu sapevi che non era così, altre persone pensano che siamo irrecuperabili, ma anche questa volta tu sapevi che non era così. Avevi una percezione della vita che a noi ci faceva molto riflettere, abbiamo sempre pensato che c’era più nero che bianco, ma tu ci hai fatto conoscere l’insieme dei colori, togliendo la nebbia che ci impediva di metterli a fuoco
Davi tutto di te: il tempo, i soldi, la fiducia, il sorriso. E pretendevi che crescessimo: con i nostri tempi, ma con obiettivi chiari e diventando forti e autonomi. E quando, e la seconda e la terza, non riuscivamo a rispettare le tue consegne – studiare, lavorare, occuparsi di chi sta peggio, prendersi a cura la città e il mondo – di fronte alla tua dolce fermezza qualcuno si metteva paura: non ci vorrai più bene? Ripetevi paziente che dovevamo diventare grandi e responsabili ma con un sorriso infinito che frantumava i ghiacci del cuore continuavi: “Fratellino, ma che dici? Io per te, o per te, o per te… sarei pronto a dare la vita”.
Guardo le tue foto, rileggo le tue mail, meno male che non ho cancellato niente; ho sempre ricopiato gli sms più belli: tu non eri mai banale. Vorrei ripetere il tuo nome tutto il giorno e non sopporto che si parli di te, mi fa troppo male. Penso che dovrei dimenticarti, se voglio vivere. E non posso che ricordarti per non morire. Sapevi di terra e di cielo. E di profumo di fiori di mare. Mi sento circondata dall’acqua. Sono diventata un’isola. Costruirò ponti. Perché questo vorresti da me.

4 ottobre 1980/2 marzo 2008