giovedì 31 maggio 2012

Pietre e parole di Calabria


Tra i due torrenti Filici, all’inizio di Occhio, percorrendo la Statale 106 da Pellaro verso Reggio, nel 1975, scavando le fondamenta per costruire una casa, si scoprì una tomba a camera, con iscrizioni a caratteri greci, con il nome del padrone, dello schiavo e dell’autore dell’incisione. Fu l’inizio di alcune campagne di scavo, tutte condotte da Rossella Agostino, che hanno portato al rinvenimento di ambienti databili al II e III secolo a. C., riconducibili probabilmente ad una necropoli arcaica – il che direbbe che l’abitato costruito dai primi colonizzatori di questa parte della Magna Grecia doveva essere collocato più a nord, nell’attuale Mortara – nonché anfore di tipo protocorinzie e pitecusano, un gioiello di fattura egizia e una fornace a pianta circolare (è risaputo che Pellaro, in epoca romana, ha prodotto molti oggetti in ceramica, dalle anfore alle lucerne).

 
Dice Leonida Repaci ne I fratelli Rupe : “La storia in Calabria si è tradotta in silenzio (…). Non affiorano, da quel silenzio, le rovine illustri della storia. In nessun luogo, come in Calabria, i monumenti delle antiche età, delle antiche civiltà, han trovato un più distaccato scenario per affermare la loro superfluità, la loro vanità; in nessun luogo come in Calabria han tradotto in cosmica indifferenza il bisogno di immortalità degli uomini. La Via dei Sepolcri non termina con le immortali vestigia di Pesto. Essa séguita per tutto il litorale bruzio dei due mari, parlando all’anima attonita delle supreme testimonianze lasciate dagli uomini nel loro frettoloso passaggio. Séguita ma quanto diversa. La terra, o copre col suo corpo le mura, le colonne, i templi, le necropoli, sì che su loro bruca la pecora, o i pochi avanzi che, come le alberature di una nave, ancora accennano dal naufragio verde, essa guarda con occhio fatale e ammonitore. Qualche tempietto, qualche statua mutilata, qualche tomba, qualche tavoletta votiva, qualche colonna, qualche medaglia; ecco quel che rimane per la fame degli storici e per la curiosità della gente. Nulla di magnifico, di vistoso, che mandi in visibilio il turista nostrale o forestiero, abbagliato dalle splendide rovine di Pesto, di Siracusa, di Agrigento. Per chi non sa, la Calabria pare senza storia. Ma, per chi sa, quale malinconia. Resta la Storia come un Genio nascosto nell’aria che si respira, smorza la nostra furia di vita con lo struggente ricordo della vita che fu”.
Ce ne sono tante, in Calabria, scoperte casuali, come quella del sito archeologico di San Leo: tracce di un passato che ha disseminato – parebbe inutilmente – il nostro territorio di piccoli, grandi tesori, che potrebbero essere anche ricchezza del presente.
Che questo piccolo spazio, di grande suggestione incastrato tra palazzotti moderni, i resti delle campagna e la vicina spiaggia – un gioiellino – sia stato oggi restituito alla città, con l’inaugurazione ufficiale cui ha preso parte anche il sindaco Arena è un bel segno. Se si riuscirà a non farle restare pietre che raccontano solo al vento la storia, sarà un gran bel segno.


Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/33919-san-leo-rc-quando-la-storia-ritrova-voce.html San Leo (RC): quando la storia ritrova la voce
Su Zoomsud è stato anche pubblicato http://www.zoomsud.it/commenti/33990-pari-bruttu-terremoti-ed-educazione-sentimentale.html Pari bruttu, Terremoti ed educazione sentimentale

sabato 26 maggio 2012

Morante-Nisida-Roberto Dinacci 2012



Non so se Antonio Menna,  ancora pochi giorni fa, sapesse che i ragazzi del carcere minorile di Nisida, che partecipano da sempre alla giuria per la scelta del supervincitore del Morante, ne designano un Premio speciale, dedicato a Roberto Dinacci, un ragazzo dall’indimenticabile sorriso, che viveva la Politica, secondo il significato che le sarebbe proprio, come servizio alla comunità e che ha dedicato molte delle sue straordinarie doti di intelligenza e sensibilità ai ragazzi delle periferie più difficili del nostro territorio.

So, però che,  in quest’anno che tra l’altro ricorda il centenario della nascita di Elsa Morante, nessuno più di Antonio Menna avrebbe potuto ricevere questo simbolico riconoscimento. Perché il suo libro affronta con ironia ma senza compiacimenti – un’ironia che non vuole far sorridere, ma smuovere le coscienze – un tema molto importante: la particolare difficoltà di crescere, di realizzarsi, di creare nuova conoscenza e nuova ricchezza a Napoli, così come un po’ in tutto il Meridione, per quel maledetto intreccio di burocrazia e delinquenza che avrebbero impedito anche ad uno geniale come Steve Jobs di realizzare qui i suoi sogni.

Roberto Dinacci venne a Nisida proprio nell’ambito di un progetto per dotare le periferie più disagiate e lo stesso carcere minorile di nuove tecnologie informatiche attraverso cui aprire ai ragazzi nuove strade e migliori opportunità di futuro: un’ipotesi “politica” da lui vissuta come personale impegno morale, in cui investire, senza risparmio, energie,  passione, intelligenza, creatività.

A Nisida, Roberto si coinvolse pienamente nello sforzo globale  dell’Istituto per mettere i ragazzi e le ragazze in condizioni di sperimentarsi, finalmente, in esperienze positive  tali da allargare i loro orizzonti, lasciandoci anche l’esempio di un Fare Politica scevro di personalismi e teso alle esigenze del Bene comune, servizio, insieme, alle Istituzioni e ai più deboli, tanto che, nel suo nome, abbiamo poi realizzato, a Nisida, un Laboratorio di Politica, ovvero una possibilità di incontro tra i nostri ragazzi e personalità dei partiti, delle istituzioni, dell’economia, della cultura, dello spettacolo, sui temi della cittadinanza, della partecipazione e della legalità. Un laboratorio di Politica, quello che porta il nome di Roberto Dinacci, onorato quest’anno dalla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha voluto rispondere alle domande dei ragazzi e delle ragazze di Nisida.

Ed è anche con l’auspicio di una Buona Politica, che dia alle migliori energie meridionali e italiane la possibilità di riprendere la strada della crescita e  dello sviluppo, che sono particolarmente felice di consegnare ad Antonio Menna per il suo Se Steve Jobs fosse nato a Napoli, edito da Sperling & Kupfer il Morante- Nisida-Roberto Dinacci 2012.

Questo è quello che ho detto oggi, al Premio Morante Ragazzi, motivando la nostra scelta per il 2012


giovedì 24 maggio 2012

Falcone-Borsellino: ancora lo stesso dolore di venti anni fa



Fu un’omelia breve, che traboccava di dolore, e, insieme, della necessità di non soccombere a tanto orrore. Così, in una chiesa trafitta da parole inattese, seppi della morte di Paolo Borsellino. Cinquantasette giorni dopo l'orrore di Capaci.

Il giovane sacerdote che cercava di infondere ai fedeli la sua passione religiosa e civile si chiamava Maurizio Calipari e da lì a pochi anni, il 4 marzo del 2005, gli sarebbe toccato piangere un altro fedele servitore dello Stato: il fratello Nicola.

In quel caldo tramonto d’estate, il 19 luglio del 1992, percorsi un po’ di chilometri di lungomare calabro piangendo in modo irrefrenabile, squassata da un dolore infinito.

Da due mesi – dall’intervista a Lamberto Sposini – seduto su un divano, il bel volto un po’ scavato, la maglietta verde, Paolo Borsellino faceva parte dei miei pensieri quotidiani. Temevo per la sua vita e speravo che lo Stato riuscisse a difenderlo: dopo Chinnici, Cassarà e Falcone almeno lui, semplicemente restando vivo, parlasse di una vittoria del bene sul male.

Mi aveva fortemente impressionato quel senso del dovere che portava negli occhi, insieme alla consapevolezza che il suo tempo era ormai breve: un cadavere che cammina compiendo fino alla fine il suo compito: con dedizione, con amore alla famiglia e alla società e allo Stato: “Ho temuto nell'immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare. (…) Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano’. La.... l’espressione di Ninni Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto la....ho sempre accettato il....più che il rischio, la....condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. Il....la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in....in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare e....dalla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.

Non mi ha mai convinto Brecht col suo “sventurato il paese che ha bisogno di eroi…”.

Ho sempre pensato che, piuttosto, ha ancora speranza il paese che, avendone necessità, si trova ad averli, gli eroi. Continuano a commuovermi Ettore e le parole che gli ha dedicato Foscolo: E tu onore di pianti, Ettore, avrai/ove fia santo e lagrimato il sangue/per la patria versato, e finché il Sole/risplenderà su le sciagure umane.

E ho un battito diverso del cuore ai versi di Termopili di Costantinos Kavafis:

Onore a quanti in vita
si ergono a difesa di Termopili.
Mai che dal dovere essi recedano,
in ogni circostanza giusti e retti,
agendo con pietà con tenerezza
generosi se ricchi, generosi
ugualmente quanto possono se poveri,
conforme ai loro mezzi sempre sovvenendo
e sempre veritieri ma senz'astio
verso coloro che mentiscono.
E un onore più grande gli è dovuto
se prevedono (e molti lo prevedono)
che spunterà da ultimo un Efialte
e che i Medi finiranno per passare.

Della recente storia d’Italia, fatta – anche – di tanti eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano i più cari. E devo fare uno sforzo per non piangere quando passa sullo schermo qualche pezzo di quell’anticipo di tributo che Borsellino rende a se stesso, alla sua famiglia, agli uomini e alle donne della sua scorta il 23 giugno 1992 commemorando Giovanni Falcone ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo: “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d' onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: La gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza”.

Pubblicato su Zoomsud Ventanni dopo. Falcone e Borsellino, ancora  http://www.zoomsud.it/commenti/33572-ventanni-dopo-ancora-falcone-e-borsellino.htm

domenica 20 maggio 2012

L'odore di maggio



Eccolo, l’odore di maggio della mia infanzia.

A Reggio per qualche giorno, vado a trovare un’amica e, all’angolo della sua casa, tra il vallone
e la rua, un arbusto – rigoglioso – di fior d’angelo spande, intorno, luce e miele.
Se c’è un fiore che può proiettare in un’idea di Paradiso, eccolo qui: bianco, di un bianco impalpabile e, insieme, assoluto, la luminosità dei pistilli come piccole luci raccolte e, soprattutto, quest’odore intenso, avvolgente, di pura dolcezza.

Ho fatto parte dell’ultima, o, al massimo, penultima generazione di donne educata al mese mariano. C’era sempre una nonna, una zia, che preparava l’altarino, in qualche parte della casa, dove ci si riuniva a dire il Rosario: una statuetta della Vergine, ogni giorno una tovaglietta di lino candido dai giornini sontuosi e i fiori: rose, margherite e, soprattutto, tralci di fior d’angelo.

C’era, anche, una parte meno poetica del mese mariano: quella dei fioretti, con delle schedine lucide, con tanto di bollino con disegnata una rosa: ogni giorno, per tutto il mese, una piccola rinuncia e, se ci riuscivi, potevi mettere il tuo bollino: per completare il bouquet che t’avrebbe fatto dire, dalle suore, che: sì, per una volta, eri stata brava.

Ma se questa seconda parte dava, anche alle più piccole e ingenue, più di un senso dell’elefante portato nella cristalleria, quegli altarini che isolavano in un punto, esaltandoli, la bellezza della natura, il lavoro antico di nonne e bisnonne e il valore alto delle donne hanno forse depositato, nell’anima di tante, un senso di sé che perdura oltre la fede e la religione, che qualcuna ha conservato e qualcuna no.

Nessuna lì sapeva nulla di Dante e dei suoi versi – Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/umile e alta più che creatura,/termine fisso d'etterno consiglio,/ tu se' colei che l'umana natura/nobilitasti sì, che 'l suo fattore/non disdegnò di farsi sua fattura./Nel ventre tuo si raccese l'amore,/per lo cui caldo ne l'etterna pace/così è germinato questo fiore – ma, nell’aria, si respirava (a chi era giovane allora, magari sono occorsi decenni per coglierlo appieno) come un inattaccabile valore specifico delle donne, la scia di una sapienza, che gli uomini di casa potevano anche ridicoleggiare, ma cui, in fondo, si rimettevano.

Pubblicato su Zoomsud col titolo Le donne e l'odore di maggio http://www.zoomsud.it/commenti/33383-maggio-il-fior-dangelo-e-le-donne.html

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Tornare in classe, senza il sorriso di Melissa http://www.zoomsud.it/commenti/33414-tornare-in-classe-dopo-melissa.html

venerdì 18 maggio 2012

Reggio, l'orizzonte del cuore



Ci sono città che guardi di faccia. Sono lì, davanti a te: case e monumenti, giardini e persone.

Reggio è una città che guardi di spalle. Nel senso che, alle tue spalle, ci stanno le case e le tracce d’una storia millenaria e le persone che ami e le cose che non ti piacciono. Ma il tuo sguardo, il posto del cuore, sta tutto in quell’orizzonte in cui la fata affatata dispiega un molteplice incanto di luci, colori, profumi.

Al confronto, ogni altro orizzonte ha un che di scialbo e insipido, di parole spezzate e gusto amaro. La luce di Reggio – quel particolare colore dell’aria, racchiusa tra il cielo e il mare, come tra le valve di una conchiglia magica – è un incanto senza uguali.

Vicino e infinito, familiare e misterioso, quel miracolo, che resta l’àncora e l’ancòra dell’anima dei reggini sparsi nel mondo nel variegato volgere della vita, t’accoglie al tuo arrivo come un canto di giubilo. E, di nuovo, t’ammalia.

E ti chiedi se tanta stordente bellezza non sia – anche – una maledizione. Perché questa consolazione dei giorni impedisce o almeno frena dal prendere di petto tutto ciò che, in questa città, non è all’altezza del suo respiro.

Pubblicato su Zoomsud  con il titolo: Quando arrivi a Reggio, il posto del cuore http://www.zoomsud.it/commenti/32983-arrivare-a-reggio.html

giovedì 10 maggio 2012

La pagella della prima elementare



Benché sia domenica, Rosa si alza molto presto, col volto stropicciato e i capelli che le pesano sulla testa. Esce a prendere una boccata d’aria sull’ampio balcone e la sorprende l’intrigo di erbacce, foglie secche, sterpi, che danno alle piante, trascurate per mesi, un’aria trasandata. Pensa che un po’ di giardinaggio farebbe bene a lei e a loro, ma accende il computer e, sorseggiando un caffelatte ben caldo, si dedica a quei tanti documenti di dubbia utilità che le tocca completare per la chiusura dell’anno scolastico.

Non s’accorge come, ma rapidamente si ritrova dentro un’immagine lontana e inattesa: il venditore di cocco – tagliato a spicchi e tenuto a mollo nell’acqua – all’angolo della grande piazza, disseminata di segni della lunga storia calabrese, e poco distante il grande convento-istituto scolastico-educandato, che occupa l’intero isolato.

Una bambina esile e bionda, con i capelli sottilissimi refrattari ad ogni ordine, che, uscendo dai fermagli, le fanno d’aureola intorno alle tempie, gli occhi chiari, una vestina rosa, a maniche a giro, col corpetto ricamato a fiorellini, entra, mano nella mano con la madre, in un’ aula. E’ appena finito l’anno scolastico della prima elementare e stanno andando a ritirare la pagella. La bambina ha lavorato sodo, ha fatto una grande fatica, lei che ha sempre parlato solo in dialetto, a esprimersi in italiano, si aspetta che le dicano che è stata molto, molto brava. I calzini corti bianchi le si arrotolano sul collo del piede, ma non ci bada: si sente bella. E anche i tabelloni alle pareti con i disegni delle lettere dell’alfabeto, minuscole e maiuscole, in stampato e in corsivo, che l’hanno fatta tanto penare, sembrano sorriderle, illuminate dalla luce che proviene da una grande finestra in alto.

Suor Maria Grazia, alta, robusta – la stessa che l’ha, per il colore delle sue gote paffute, soprannominata “Rosellina”, nome che, con piccola variante, conserverà da adulta (di suo, si chiama Giovanna) – la saluta burbera: “E, che pensi, sei stata bocciata”. E’ uno scherzo, naturalmente, ma a Rosa bambina, che vuole essere buona e brava, nessuno ha insegnato la sadica ironia degli adulti. Il sudore che la prenderà poi agli annunci di morte le scivola ora dalla nuca e le raffredda le reni e le ossa sentono dolore decenni prima che l’osteoporosi se li mangi. La sua aula è l’ultima di un lungo corridoio, abbastanza illuminato. Lei lo rifà come se fosse buio, anche se le hanno spiegato che no, è stata promossa.

Si chiede ora, Rosa, per quanto tempo, le era poi rimasta l’inconsapevole convinzione che, per quanto buona e brava, nessuno le avrebbe davvero riconosciuto quello che valeva. Certo – lo sa bene – ne ha avuto ben altri di specchi puntati addosso a dirle: “Questo non è per te”, “No, tu no”. Ma, chissà se, senza quel graffio dell’anima, le sarebbe stato più facile romperli.

domenica 6 maggio 2012

MaliNati di Angela Bubba




«I treni che dalla stazione Termini portano in Calabria vanno quasi sempre dal binario numero 10 a quelli numero 15, e sono rumorosi e felici, pieni di calabresi. Non appena agganciano le scalette loro diventano subito festanti, luminosi, come se a un tratto partecipassero anch’essi al grande fidanzamento della vita. Perché quando si parte verso la Calabria si prova questo, si fa ritorno nel luogo della grande morte e della grande vita».

Ogni volta che sale sul treno che da Roma, dove studia all’Università, la riporta in Calabria «nel posto della sospensione », dove le cose rimangono «interrotte a uno zero liquido e centrale, implose fra un meridiano e l’altro», « l’unica vera isola italiana, il sud del Sud», Angela Bubba rilegge queste righe di Alvaro: “Tu devi imparare a sopportare. Tu non potrai rimanere sempre con me e con tuo padre. Tu devi fare la tua strada. Tu devi uscire da questo paese. Tu non ci puoi rimanere. Troverai dove andare, dove tu stia meglio e più libero. Ma questo paese lo devi abbandonare. È la tua sorte”.

Alla signora che, seduta di fronte a lei, rimane un giorno sconcertata da tanta “cattiveria”, risponde: «Non è esattamente cattiveria. Ah no? No, signora. E che cos’è allora? Attesi circa un minuto prima di risponderle, avere infatti le parole già pronte non significa sempre poterle utilizzare. O almeno, non subito. Quelle parole erano ancora troppo giovani per me, dovevano essere accudite Cos’è? Lei me lo chiedeva un’altra volta. Non è cattiveria, signora…Parlavo senza guardarla. Non è cattiveria, ma disperazione. È nascere e crescere in Calabria».

E’ la ferita sanguinante della diversità dell’essere calabresi, per una sorta di atavica abitudine a riconoscersi figli di un dio minore, che attraversa MaliNati, secondo libro, dopo il successo de La casa, della giovanissima Angela Bubba (nella foto) appena pubblicato da Bompiani: «Crescere, studiare, amare qualcuno o qualcosa, qualsiasi cosa, sempre col rimorso di non appartenerle davvero, di viverla come vivi te stessa: un tentativo, un imbarazzo sopravvissuto. Alla prima oscillazione esploderai e non ce la farai, il ghigno appollaiato sulla scapola risorgerà e ti metterà in guardia. Tu non ne sei degna, ti dirà, perché non hai simmetria. Perché fra te e il mondo si è intromessa una faglia, un fragore marginale e dunque devastante, che te ne separa proprio quando ti pare di stringerla e dire: è mia! Mentre non lo è invece, controlli le mani ma nulla. Solo interferenza, spettacolo della nevrosi, prosa. Le parole e il desiderio di carcerarle dentro una pagina a qualunque costo. L’unico miracolo familiare, la sola innocenza». E ancora: «Sentirti una carenza e un’inutilità, una cosa fatta apposta per stare in Calabria, un rifiuto meravigliosamente adatto alla propria discarica, sì, come dirtelo, Angela? Sei nel posto giusto al momento giusto, sei in Calabria…».

« … non mi sento libera e non mi sento viva. Ho ventidue anni, sono calabrese e non sono viva. Chi devo rimproverare? C’entro io, la mia regione, la mia nazione, la storia?». Da queste domande nasce un racconto – reportage suddiviso in capitoli, non del tutto omogenei, ma di fiammeggiante forza espressiva.




La rivolta di Rosarno, la ricerca della fabbrica invisibile Soteco, la camminata per le strade di Crotone, la conversazione con la madre di Federica Monteleone sono altrettanti segmenti di un unico, sincero fino alla spietatezza, corpo a corpo tra tra le domande che affollano la mente dell’autrice e una realtà «falsamente immobile» contrassegnata dalla nebulosità della disinformazione : «…le parole valgono almeno quanto il sangue e non ne se versa mai una goccia in più. Una parafrasi antropologica che sta per risparmio, sopravvivenza, investimento per il futuro: serviti solo dell’essenziale, anzi anche di meno, meno lo vedi il sangue e più stai bene, vuol dire questo. Non sprecare e dunque non parlare. Inutile in ogni caso, se oltre il confine dicono di sapere tutto di noi, se le parole che non pronunciamo sono gli altri a pronunciarle al nostro posto».

Un corpo a corpo che si allarga, nelle pagine “romane” – dedicate alla nutrita presenza calabrese nella capitale e alle problematiche universitarie – alla realtà complessiva dei giovani italiani, traditi da una politica che, incapace di aprire prospettive di futuro, li ha derubati anche dell’entusiasmo di vivere. «Da ventiduenne, è questo quello che sento di essere insieme a molti altri. Argilla viva ma sprecata, non rispettata. Cos’è il rispetto, per un giovane italiano di oggi? »

MaliNati è un libro non facilmente catalogabile. Non è un romanzo e non è neppure un saggio. E’ rabbia, urlo, riflessione, scoramento, disperazione, invettiva, lacerazione; umori personali e dramma dell’ “evanescenza” di un’intera regione; malessere autobiografico e, in certe parti, manifesto generazionale. Un morantiano denudamento dell’anima, da cui emerge la voglia di incidere vecchi bubboni – «I nostri problemi non si affrontano e non si bruciano, si chiudono. Li ripongono tutti in un miracoloso cassettone sospeso fra un mondo e l’altro, lasciandoli lì a macerare come tanti anni terrestri, tantissimi occhi etilici. Gli occhi hanno a disposizione un solo foro attraverso il quale guardare, rivolto non verso gli uomini ma in alto, non possono ricattarci in questo modo» – provando a «rispondere, in un territorio di silenzio e guerra come questo».

Come già ne La casa, la cifra stilistica della Bubba, che conferma potenzialità di scrittura non comuni,  sta in una lingua ricca e mobile, inventiva e di solido spessore letterario, spesso articolata in metafore e capace di rendere, anche con l’uso, parco, di neologismi e un’accorta italianizzazione di termini dialettali, la violenza bruciante, magmatica, delle emozioni: «…è il momento di combattere attraverso le parole. Ritornare a parlare attraverso le parole».




Su Zoomsud sono stati pubblicati anche La Calabria e il Qualunquismo http://www.zoomsud.it/commenti/32290-la-calabria-e-il-qualunquismo.html