sabato 31 marzo 2012

L'uomo che intrecciava le palme


Quel sabato, don Giovanni tornava presto dalla campagna. Ordinava alla moglie che desse da mangiare e da bere all’asino e si sedeva all’ombra, nella rua, con i grandi tralci delle palme a terra intorno a lui (li aveva tagliati prima dell’alba, dalle grandi piante che crescevano, di fronte alle zimbe dei porci, insieme ai banani). E iniziava a intrecciare.
Non era un lavoro. Era un rito. Simile al segno di croce con cui, a gennaio, versava il sale all’ultimo sobbollire delle frittole. O a quello di donna Cilla, che, richiudendosi, diceva lievitata la pasta del pane. Una cerimonia semplice, essenziale, come il sacrificio di un re – contadino.
I rami più belli, con quel verde lieve che sfumava dal giallino primo raggio di sole fino ad un bianco luminoso, diventavano le palme – alcune, quasi ricami al telaio, pareva facessero sbocciare fiori da una croce – da portare, il giorno dopo, in chiesa, per la benedizione solenne che apriva una settimana la cui santità avrebbe intriso l’aria di grano giovane e di cudduraci.
I rami più piccoli e, magari, spezzati diventavano canestrini e altri piccoli oggetti per i bambini di casa che, lasciato ogni lavoro, gli si accrocchiavano, meravigliati di quello che usciva dalle sue grandi mani, abili, veloci e delicate. E se ne andavamo poi per le rue vicine, con i loro amuleti sacri, allegramente fieri di un nonno che faceva cose belle come nessuno, in tutto il circondario. E ignari che mai, essi stessi, avrebbero intrecciato palme.
Quel mondo – in cui l’alzarsi e l’andare a dormire erano dipesi dalle semine e dai raccolti, dal mungere le vacche e dall’insaccare il maiale, dallo sgusciare le mandorle e dal raccogliere le olive e la mai riposata fatica aveva trovato pause in processioni, riti e feste religiose – stava per finire.

Ma da qualche parte, in Calabria, per chi l’avesse saputo respirare, sarebbe rimasta la scia dell’abbraccio profumato della natura e del sacro: come protezione accogliente di socchiuse valve di conchiglia.






martedì 27 marzo 2012

Cognomi



Al signor I., persona umile ed onesta, un bel po' di tempo fa, in un quartiere di Reggio, rubarono la macchina, con dentro pane, provola e pochi soldi. La ritrovarono tre mesi dopo, senza pane e provola, ma con dentro i soldi, in un altro quartiere, davanti ad una caserma. Quando, avvertito al telefono, andò a riprenderla, il maresciallo squadrò la sua carta d’identità, e, con tono che sottolineava le parole, commentò: “Ah, che cognome che portate…”. Il signor I. rispose, calmo: “Anche quello che ha fatto l’altro giorno quella rapina a Nord ha il vostro cognome; non è che è un vostro cugino, un vostro parente? Quanto a me, perché non mi chiedete di mio nipote l’ingegnere e di quell’altro professore?”.
Come anche la cronaca attualmente in primo piano suggerisce, sarebbe, forse, il momento di affrontare, in Calabria, una seria discussione anche sul nodo “parentele”.
Perché – in relazioni familiari così vaste e ramificate come quelle di certi nostri paesi, dove quasi tutti, se non direttamente imparentati tra di loro, possono essere… parenti di altri parenti – non ci si può proprio stupire se il tal dei tali, galantuomo (o gentildonna) a 360 gradi, abbia un tal o talaltro, zio, cognato, cugino – talvolta, peraltro, mai conosciuto e/o non frequentato – con questa o quella implicazione illegale. Senza voler scomodare i principi del Diritto in base a cui ognuno, giustamente, è responsabile dei suoi atti, ci si può rifare a quella saggezza popolare e contadina che riconosceva: “Tutti ‘i ‘na ventra, non tutti i ‘na menti” (perché nascere da una stessa madre non rende i fratelli sempre uguali nel loro modo di pensare e di agire) e che aveva chiaro un punto: “Da’ tavula mi po’ cacciari, ma non da’ parentela”. Il che vuol dire che l’anagrafe definisce irreversibilmente i nostri rapporti di parentela, ma che la scelta di chi avere al proprio tavolo – scelta qualche volta semplice semplice, più spesso fatta di sfumature e distinguo, talora drammatica, in alcuni casi tragica e/o straziante – è solo nostra.
pubblicato su Zoomsud con il titolo Parenti d'anagrafe e parenti di tavola http://www.zoomsud.it/commenti/30310-parenti-danagrafe-e-parenti-di-tavola.html





sabato 24 marzo 2012

Il cortile delle viole e delle farfalle


Anch’io ho dentro un cortile. Anzi, più d’uno.

 C’è la rua separata dalla mia casa dall’unico gradino del tinello e dai tre di una stanza, più lunga che larga, con, quasi sulla porta, una macchina per cucire. Su quei tre bizzola – non avevo ancora tre anni – mi salutò il compagno di giochi, prima di partire. Da sempre conoscevo la parola emigrazione, ma, in quel tramonto quieto, vissi lo sgomento che, di fronte all’immenso oceano, aveva rubato suoni e colori alle vite di nonni e prozii. Gli anziani si fermavano a chiacchierare su una specie di panchina di pietra, addossata alla parete della casa della zia N. e ‘du ‘zi G. – che sboccava, nel lato di sotto, sulla stradina limitata dai roveti che portava alla sena, dove s’andava a prendere l’acqua fresca, con bumbuli e quartare. E‘u zi S., seduto su una sedia di spago, un grande asciugamano sotto il mento, talvolta canticchiando e più spesso imprecando, si faceva fare la barba dalla zia C..

C’è la rua sotto ‘u lastricu (il terrazzo da cui si vedeva l’orizzonte di cielo e mare), dei nonni materni dove, d’estate, per intere settimane, si sbucciavano mandorle e si preparavano bottiglie di pomodori, davanti al grande stanzone dal pavimento grezzo, con su un lato, le maille e le tavole per impastare il pane, e dall’altro, le grandi giare dell’olio, con sopra i cafizi untuosi e scintillanti – sono cresciuta a pane di grano caldo con l’olio. Meglio: pane col buco con l’olio, ovvero, tagliato il cozzetto del biscotto, si toglieva la mollica, si colmava di olio, si rimetteva la mollica: delizia pura. Più in là, i salaturi con i curcuci, le olive, le giardiniere e le cannizze con i fichi seccati e, appese alle travi del tetto, le schiocche di pere.

E c’è la rua tra la casa dei nonni e il magazzino con il fieno per gli animali, con davanti il forno dove mi infilavo a prendere le briciole cadute delle fricie e dei biscotti. La nonna si sedeva a scocciuliari (sgranare) fagioli o filava lana grezza e il nonno preparava il braciere in cui quelle stesse calze faceva bruciare, scafuliando il fuoco col calcagno. Una striscia di terra costeggiava un piccolo orto – dall’altro lato c’erano le vasche dell’acqua (quando, finalmente, arrivò), con alcuni banani i cui frutti rimanevano sempre verdi, immaturi – fino alla stalla con le mucche, i vitellini e l’asino e al trappito (frantoio), dove un giorno, fiera di tanto avere, portai un’unica oliva zunzufarica perché la macinassero. E, dal lato opposto, una macina di legumi in pietra, che già non s’usava più.

(Se, al tramonto, tornavo – pochi passi – dalla casa dei nonni alla mia, fino a metà chiamavo “Nonna” e per l’altra metà “Mamma” e la loro voce quietava il battito più accelerato del cuore. Una sola volta, portando la sua schiocca di pere, profumate e belle, non chiamai nessuna delle due, come avessi in mano la melagrana del ritorno di Persefone/Kore).

E c’è il cortile. Piccolo e interno. Chiuso, da due lati, dalla stanza dai tre gradini e da quelle del tinello e della camera da letto dei genitori e dal cortile su cui s’affacciava la cucina di zio S. e della zia C.. Il terzo lato era occupato dal pollaio, dietro cui si estendeva la proprietà di lontani cugini e il quarto era un bergamotteto, che una spessa rete metallica indicava come di altri.

 Non era un cortile assolato. Il sole, anzi, aveva un retrogusto umido e muscoso. La solitudine, inquieta di fruscii lontani e incantata del mutevole trascorrere della luce, s’innervava di stupori e turbamenti. Aspettavo per ore che le galline facessero le uova per poterle raccogliere.

Raccogliere, mi piaceva. Raccolsi l’intero prato di viole del pensiero e ne ebbi una sgridata che mi bastò ad interiorizzare il principio che ci stanno cose che “si guardano, ma non si toccano, così dice mamma Rocca”. Continuò a raccogliere farfalle. C’erano decine e decine di cavolaie. Le prendevo con una retina, le mettevo in un paniere di vimini ricoperto da un po’ di vecchio tulle. Poi, le lasciavo volare: felice di quella bellezza che s’allontanava.

Nulla di tutto ciò è rimasto. Eppure. Perché ognuno appartiene a luoghi che lui solo sa.

A Marina Valensise che nel suo recente “Il sole sorge a Sud” (Recensione "Il sole sorge a Sud)  ha parlato (anche) del cortile assolato della sua infanzia calabrese.

giovedì 22 marzo 2012

La ragazza con la bandiera


«Il Il 7 novembre 1860, dopo l’incontro di Teano, Vittorio Emanuele, con a fianco Garibaldi, entra a Napoli. Il giorno dopo, a palazzo reale, riceve ufficialmente
i risultati dei plebisciti nell’ex regno borbonico e, per la prima volta, sull’affaccio della piazza che dal Plebiscito prenderà nome, viene esposto il tricolore. A farlo sventolare è Elisabetta Romeo di Santo Stefano d’Aspromonte…»

Attraversando il labirinto dei banchi, la professoressa Anna Ferraro tagliò l’aria con la mano, segno che, finita la dettatura, dovevano affrettarsi a scrivere.

Nell’aula si avvertì lo sbuffo di qualche parola, ritmato dal fruscio delle biro poggiate sui fogli. Jessica, una longilinea bionda con un rossetto rosa-primavera, sorrise alle immagini che già le si schiudevano in mente. Mario guardava la porta come se da lì potesse entrare la signora ispirazione. Ciro aveva occhi vivaci, che rincorrevano una storia, ma non quella. Francesco, di certo, avrebbe trovato modo di dire che sarebbe stato meglio – altro che unità – non essere annessi al Nord. E Giusy ne avrebbe fatta un’eroina a tutto tondo, magari a cavallo, con un rosso mantello alla Garibaldi.

La professoressa aveva in precedenza spiegato che l’esercitazione del giorno sarebbe consistita nell’elaborazione di un micro-racconto su di una ragazza, di cui ben si conoscono solo quel gesto e i vincoli familiari – figlia di Giannandrea, sorella di Pietro Aristeo, nipote di Domenico, cugina di Stefano: tutti patrioti di chiaro spessore. Non per nulla Gioberti, nel 1847, così si rivolse ai primi due: «O generosi, che rinnovaste nelle mollezze moderne le virtù antiche trovate in me un ammiratore, un amico che in voi specchiandosi, si vergogna di sé medesimo e del suo secolo».

Erano almeno dieci anni che i progetti del liceo Ibico iniziavano tutti nella mente dalla Ferraro, che per superare l’infinita noia che le dava tornare in classe ogni mattina – ma, questo, nessuno l’avrebbe: era sempre presente e in largo anticipo – se ne inventava sempre di particolari. Quello in corso – eppure, all’inizio, l’idea del Settimanale le era sembrata ben poco brillante – le aveva riempito pomeriggi e sere, colmandole di alacre attività quel vuoto crescente che marito e figli riempivano di fastidi e tensioni.

Le piaceva leggere i giornali. Barattando in carta stampata le ormai abolite spese in profumeria e dal parrucchiere, ne comprava due al giorno, uno nazionale ed uno locale. Arrivò a quattro, due più due, rinunciando, per quell’anno, anche ai tailleurini, primaverile-autunnale e invernale che aveva vagheggiato. Ogni giorno li portava in classe e chiedeva ai ragazzi di scegliere ciascuno una notizia, che riguardasse la loro città, e di riscriverla a proprio modo. Selezionando tra quelle riscritture, e lavorando anche di furbizia e fantasia, con interviste ricostruite spezzando l’intervento di qualche politico in domande e risposte e inchieste ottenute mettendo insieme un certo numero di “brevi”, ogni venerdì caricavano il loro Settimanale sul sito della scuola. Che divenne, per i feisbukiani, giovani e meno, della città, una pagina di riferimento. Con le relative ricadute didattiche positive – Francesco che non faceva più errori d’ortografia, Consuelo che aveva imparato a fare il riassunto – che la professoressa Ferraro non mancò di sottolineare nei quindicinali verbali di classe.

La più bella pagina del Settimanale – aveva proposto ai ragazzi una particolare rubrica letteraria: una mini-scuola di scrittura per riportare alla luce persone, fatti ed eventi della storia locale – le aveva imposto di alzarsi mezzora prima e andare a dormire mezzora dopo del solito, per spulciare, in libri presi in prestito in biblioteca e su internet, ogni possibile notiziola. Ma era stata per lei stessa un regalo inatteso. Ricostruire un gesto, un momento di chi era passato su quelle strade, tra le colline e il mare, lasciando un qualche segno positivo di sé, era diventato il suo spazio segreto, il luogo dove tenere la mente durante consigli e collegi, la scala delle sue gerarchie – tra aderenza alla realtà e slanci di sogni sconosciuti.

I ragazzi non sapevano – magari, glieli avrebbe fotocopiati alla fine dell’anno – che anche lei faceva gli esercizi. Si chiedeva, talvolta, che senso avesse tanta fatica. Poi, il racconto, finito, le appariva, sullo schermo del computer, come uno specchio della sua vita: ciò che era muto trasformato in parole sonanti, l’opaco in luci e chiaroscuri; le tessere frantumate e sparse ricomposte in un ordine logico.

La sua Elisabetta Romeo avrebbe avuto i capelli neri, suddivisi in due trecce ripiegate sul capo a mo’ di aureola, un vestito di mussolina grigia, uno scialle intessuto a rose rosse. Sulle sfumature del carattere voleva pensarci ancora. Gli occhi erano la prima cosa che aveva deciso: come neri dirupi, fiammeggianti di incendio in pieno giorno.

Racconto pubblicato su Zoomsud - http://www.zoomsud.it/commenti/29913-la-ragazza-di-santo-stefano-che-per-prima-sventolo-il-tricolore-buon-compleanno-italia.html - con il titolo La ragazza di Santo Stefano che per prima sventolò il tricolore (Buon compleanno, Italia)

Su Zoomsud è stato anche pubblicato - http://www.zoomsud.it/commenti/29985-di-rombiolo-vv-la-prima-calabrese-laureata-nel-1921.htm  - un ricordo della prima laureata calabrese.



mercoledì 21 marzo 2012

Racconti per Nisida, isola d'Europa

“Quando abbiamo ipotizzato questa tappa del nostro percorso, non immaginavamo che essa si sarebbe svolta in un clima così preoccupato per le sorti di un’Europa in crisi economica, sociale e ideale. Ma dal nostro stesso lavoro abbiamo tratto una conferma importante: che è solo l’Europa l’orizzonte in cui può iscriversi il nostro futuro”.
Dalla mia postfazione a Racconti per Nisida, isola d’Europa.


Il libro – che racchiude gli scritti di sei autrici, Emilia Bersabea Cirillo, Daniela de Crescenzo, Antonella del Giudice, Antonella Ossorio, Patrizia Rinaldi, Nadia Terranova, introdotti da un racconto di Maurizio de Giovanni e da uno splendido sonetto di Yves Bonnefoy, tradotto da Valeria Cacace; copertina di Cecila Latella – è stato amichevolmente edito, fuori commercio, da Mario Guida.
Con i Racconti per Nisida, isola d’Europa, si conclude la trilogia narrativa del progetto Nisida come Parco letterario, cui stiamo ancora lavorando.
Il libro sarà ufficialmente presentato a Nisida il 3 maggio.

domenica 18 marzo 2012

Il sole sorge a Sud di Marina Valensise

“Dentro di me c’è un cortile assolato. Lungo e stretto, chiuso e protetto, sembra un utero; per terra il brecciolino bianco, di quelli che segnano per sempre le ferite
al ginocchio di chi correndo cade. Il cortile era circondato da una fila di vecchie case….(…)”.

 Insieme al mare – “e per il mare intendo Palmi in senso lato, e dunque la spiaggia della Tonnara, ma anche la piazza e soprattutto la casa dei nonni materni”– “dentro di me c’è ancora quel cortile assolato, c’è il sole a picco, il caldo afoso e senza scampo, i concerti di cicale ubriache d’estate, le ortensie che implorano un po’ d’acqua. C’è il silenzio della controra e la frescura dell’imbrunire, coi piedi bagnati che sguazzano nella ghiaia, e la pompa che vaga di mano in mano per abbeverare la natura. E poi c’è il buio della notte…”.

 Tra il regno del Mare – “il regno del disordine, della licenza del possibile, del sempre permesso e del comunque consentito” – e quello del Cortile – “regno dell’ordine, della norma imposta, venerata e rispettata, delle regole inesorabili e dei divieti introiettati, della vita sobria e del rigore…” – scorre il paradiso di un’infanzia serena, in cui, anche in vacanza, si cresceva apprendendo la disciplina del bene, l’appagamento del fare il proprio dovere.

 Quando, nel 2009, per una serie estiva del Foglio intitolata Cosa c’è dentro di me, Marina Valensise scrisse della Calabria di quando era piccola – dei giochi con i cugini, del reiterato e sempre nuovo “nascondersi in cortile”, degli adulti di casa, dell’orizzonte visibile dalla casa di Polistena– “le montagne delle Serre che prima di salire verso l’Aspromonte, si dilungano sui piani della Corona, culminano sul dente del Sant’Elia per tuffarsi, da lì, a picco sul mare e ritrovare in fondo al golfo di Gioia le piccole sagome estenuate delle Eolie…” – “fui sommersa da tante reazioni inaspettate. Messaggi palpitanti di commozione, cugini in lacrime, tanti amici sorpresi e ammaliati”.

Non poteva che essere così. Perché, la sua, era una descrizione di limpida bellezza, in cui un intreccio di sobrio lirismo e di sensibile riflessione illuminavano l’appassionato, intimo, legame con la terra d’origine, facendo emergere nel lettore emozioni personali, intense e profonde.

 Il ricordo dell’infanzia – realtà mitica, come è sempre, vista ad una certa distanza di anni – non diventava il rimpianto del passato o l’amarezza del futuro impossibile, ma il potenziale punto di partenza per un’analisi sul presente. Analisi definita dall’autrice parziale e ipersoggettiva, eppure lungamente maturata nel confronto con la complessa oggettività della situazione italiana.

 Con Il sole sorge a Sud – Viaggio contromano da Palermo a Napoli via Salento, recentemente pubblicato da Marsilio, Marina Valensise esplicita quanto in quell’articolo rimaneva sottinteso. Ovvero, che la nuova crescita, economica, sociale e culturale, del Paese può venire proprio e soltanto dal Meridione, a patto che esso stesso, per primo, smetta di percepirsi come problema e inizi a interpretarsi, a viversi, come risorsa.

 Da qui la necessità di uno sguardo attento al Sud “normale”, “un Sud fatto di serenità, di tranquille abitudini, ma soprattutto di impegno, serietà, rigore”, quello che, fagocitato dall’immagine del Meridione preda della delinquenza organizzata oppure mero rigurgito dell’insieme di “piagnistei, lamentazioni perenni e bilanci di fallimento”, non riesce ad emergere mai.

 Un’inchiesta giornalistica che percorre il territorio, strada dopo strada, scoprendo cosa c’è di vecchio e di nuovo dietro ogni angolo, raccontando i luoghi come se non fossero mai stati visti e le persone come fossero state a lungo conosciute. Un’indagine insieme accurata e fresca; nuova e attenta, che riorienta la prospettiva in cui inquadrare fatti e scelte. Con una cifra stilistica che fonde il sobrio linguaggio della giornalista con il fascino ammaliante d’un raccontare da scritttrice.

 Le pagine calabresi (pp73-149), vivida descrizione di un mondo aspro, difficile, straordinariamente bello e ancora pieno di potenzialità – inchiesta e, in qualche modo, romanzo di formazione – richiamano, che si sia d'accordo o meno con le singole affermazioni, le più belle note di viaggio dei secoli passati.

 “… oggi nessuno, forse nemmeno il calabrese, osa più ricordare la felice etimologia del nome della sua terra, Calabria, scelto dai bizantini per dimenticare il Bruzio, unendo il plurale di kalos e brùw che in greco è tutto ciò è buono, e un verbo che vuol dire fiorisco, abbondo, rigurgito”.

 Marina Valensise compie il miracolo di guidare il lettore – sia quello che della regione non sa nulla di più di quanto raccontano i telegiornali sia quello che vive personalmente la solitudine di Reggio, la natura selvaggia del cuore dell’Aspromonte, le diverse situazioni della Calabria Ultra e di quella Citra – nella scoperta di tutto ciò che, pur senza dimenticare il male ed il buio, dia la consapevolezza che quel nome possa avere, ancora oggi, un significato pieno.



sabato 17 marzo 2012

Buon compleanno, Italia


Non saprei pensarmi se non come Italiana di Calabria (ma la foto rimanda ad altro luogo).  Mezzo mondo nel mio sangue, che confluisce in  una sola lingua.

giovedì 15 marzo 2012

Violette


Vali cchiù ‘nu colpu d’acqua di marzu e d’aprili chi ‘nu bastimentu caricu d’oru cu tutti li vili. (Vale più una pioggia a marzo e ad aprile che un bastimento carico d’oro con tutte le vele; ovviamente perché fa crescere tutte le piante della campagna).

Megghiu 'to madri mi ti 'ciangi, 'cu suli di marzu mi ti tingi. (Meglio che tua madre ti pianga - morto - piuttosto che farti annerire dal sole di marzo; sole traditore, che fa male).

Ma una giornata di sole, con la luce che esulta nel cielo e sul mare ed esplode qui e là in macchie di colore, asciuga le ossa e, almeno un po’, risana l’anima…

mercoledì 14 marzo 2012

Quando cominciammo ad andare a scuola


Sono stata la prima a laurearmi nella mia famiglia. Non la prima tra le donne, proprio la prima in assoluto. Il dato non avrebbe alcun interesse extra privato, se non fosse che, sommato ad altri consimili, costituisce un indice interessante delle profonde modifiche che, in pochi decenni, hanno portato alla scolarizzazione di massa anche in Calabria.

L’immediata estensione della sabauda legge Casati all’appena costituito Regno d’Italia non produsse dovunque l’attuazione di quell’obbligo scolastico dei primi due anni delle elementari che pure era tra i suoi principi. Né ci riuscì la legge Coppino del 1877. E’ solo all’inizio del Novecento che le famiglie contadine del reggino cominciarono a mandare a scuola i figli.

Dei miei avi, bambini e/o ragazzini al momento del terremoto del 1908, alcuni avevano frequentato o stavano frequentando le prime due classi delle elementari.

Le bambine si fermavano lì, perché, come diceva il padre di mia nonna paterna, “si no, si scrivi ‘cu zitu” ovvero “se no, impara a scrivere e, quando è più grande, si scriverà col fidanzato”. Ma anche i maschi si fermavano lì perché, ben prima dell’alba, quando nel cielo le due Orse erano ancora splendenti, avevano da alzarsi e fare quattro, cinque chilometri a piedi per andare nei campi e tempo per la scuola non ce n’era. Anche se per motivi diversi, bambini e bambine si ritrovavano, dunque, nella stessa situazione e, talora, le bambine erano addirittura favorite. Mio nonno materno non è andato a scuola; mia nonna materna sì e ha insegnato a scrivere, a quello che poi sarebbe diventato il mio nonno paterno, disegnando a terra le lettere dell’alfabeto con un ramo d’albero, quando pascolavano le pecore e si rifocillavano mungendo le capre nelle stelle dei fichi d’india.

L’unico degli anziani che, sempre al momento del terremoto, aveva frequentato la scuola qualche anno in più, era  il mio bisnonno materno, che, entrato in seminario da piccolo, poi, grandicello, ne era uscito. Nella cascia del pane teneva un vecchissimo libro dalla rilegatura ormai rotta, che tratteneva appena i fogli ingialliti: una Bibbia, forse, o un libro di preghiere. La sera radunava intorno a sé tutti i nipoti per il rosario, poi si metteva a raccontare favole con protagonisti principi e re, vescovi e cardinali. Quando nel 1937 morì monsignor Carmelo Pujia, il mio bisnonno, ormai anziano e prossimo anche lui alla morte, si fece venti chilometri a piedi, dieci all’andata e dieci al ritorno, per andare in città, al funerale. “’N ‘omu ‘randi – diceva, affannato, ai nipoti – ‘n ‘omu ‘i ‘cori… e’ndavi puru ‘nu frati ‘sonaturi…”. E i nipoti si chiedevano stupita che avessero di tanto importante i suonatori di ciaramelle che, per voto, scendevano dalle colline tutto intorno per la novena di Natale: dovette passare un decennio perché scoprissero l’esistenza dei “senatori”. 

E’ proprio negli anni trenta, sotto il fascismo, che l’obbligo dell’istruzione primaria divenne effettivo anche nella campagna reggina. Le bambine continuarono a fermarsi a metà, ma alcuni maschi, dopo le elementari, cominciarono a frequentare “il complementare” e arrivarono agli istituti tecnici. Ci sono dieci chilometri tra la campagna e la città e qualcuno li faceva a piedi, qualche altro con la bicicletta. Entrambi, per non consumare le scarpe, se le mettevaono solo all’ingresso della scuola. L’acquisto del vocabolario d’italiano di mio padre venne pagato con la vendita dell’oro di nozze di sua madre.

A dare gratuite ripetizioni, era il parroco don Quattrone (personaggio controverso, amato e odiato, che conobbe anche la galera): “Quando scrivi, tieni a mente come parli. Quando le nostre parole finiscono in “i”, in italiano finiscono in “e”: pani si scrive pane; le u sono o; quando diciamo: chi boi? Allora devi mettere la vu: che vuoi?”. Lezioni sulle doppie da togliere, sulle ‘nd, ‘nda che diventano nel, nella. Linguistica applicata. Esercitazioni di traduzione simultanea. Ragazzi terrorizzati dal compito d’italiano che presero buoni voti ai concorsi e si sistemarono. E, ancora adesso raccontano: “Nessuno ce l’aveva mai detto. Io ancora ora ci penso a che devo togliere o cambiare, se scrivo qualcosa…”

La generazione successiva, la mia, ha cominciato a frequentare anche i Licei e l’Università. Ora siamo a molte decine di migliaia di laureati e laureandi, iscritti nelle diverse sedi universitarie calabresi, o di altre città italiane, di cui tantissime donne.

Ma laurearsi, magari brillantemente, non assicura lavoro. Il rapporto Almalaurea, presentato a Roma qualche giorno fa, rileva come il tasso di disoccupazione, a cinque anni dalla laurea, sia particolarmente alto in Calabria e, specificamente, nella provincia di Reggio (dove la disoccupazione giovanile complessiva è del 42,8%  di contro al 39,% della Calabria, al 38,8%  del Mezzogiorno e al 27, 8% in Italia).




domenica 11 marzo 2012

Un'epigrafe d'erba


Non mi vestite di nero
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
Adriana Zarri

Questa è l’epigrafe scritta per se stessa da Adriana Zarri, eremita, teologa, scrittrice, amante dei gatti, morta novantunenne nell’autunno del 2010.

Mi ricorda il cimitero del mio paese, quando ero bambina. Piccoli solchi di terra nuda o con qualche fiore. Diverso da una delle tante lenze  dei tanti campi solo perché vi si respirava un senso, pacato, quieto, assoluto del mistero e del sacro: di una sospensione del cuore, che comprendeva la lacerazione del dolore e l’attesa di un più grande bene. Sul cocuzzolo della collina più alta, poco sotto il cielo, davanti ad un orizzonte di mare, bello da lacrime.

E mi ricorda il grano del Giovedì Santo che torna in questo mio racconto, Il grano giovane del prete anziano pubblicato da Zoomsud:


domenica 4 marzo 2012

Mio Padre, un anno dopo


E’ morto mio padre. Un uomo che ha dato alla vita più di quanto la vita abbia dato a lui. Un uomo giusto, buono e mite, dalle convinzioni profonde che difendeva con grande forza polemica. La sua risata “stutava ‘u suli”, come ha detto il parroco alla messa funebre riprendendo voci di paese: perché era così allegra da superare, fin quasi ad esaurirla, la luminosa bellezza del sole. Suo padre emigrò in America quando lui aveva tre anni; l’avrebbe rivisto a ventinove. Sua madre, lavorando coperte all’uncinetto alla luce della luna per non consumare candele, gli ha consentito di studiare – il vocabolario d’italiano le costò la vendita del suo poco oro di nozze. Diventò ferroviere a diciotto anni e, subito dopo, soldato in Aeronautica. Si trovava a Roma al momento dell’armistizio; andò verso Nord; riprese a fare il macchinista e cominciò a fare il partigiano: a ricordarlo, a casa, più che la medaglia, ci sono gli ideali che ha trasmesso. E’ stato uno di quei comunisti di base che con disinteressata passione hanno grandemente contribuito al quel po’ di giustizia e dignità che l’Italia conserva ancora. Un cristiano anonimo, che ha fatto del bene a tutti. Un’infanzia di fame e fatiche – dieci chilometri, all’andata e dieci al ritorno, al giorno a piedi per andare a scuola, le scarpe infilate sulla soglia per non consumarle. Una maturità di conquiste e realizzazioni. Da pensionato  – mai un giorno d’assenza al lavoro – è tornato al mestiere antico degli avi, il contadino, e la sua terra è stata, per anni, il più bel giardino della zona. Poi, atroci anni finali, rimasti pienamente umani solo grazie alla grande fede e all’eroico amore di mia madre e all’affettuosa generosità di T., una di quelle donne semplici e forti, che restano sconosciute ai più e che, in realtà, reggono il mondo.
Un grazie a chi, in vita e in morte, lo ha onorato e a chi, con un sorriso, lo ricorderà.
Pubblicato lo scorso anno su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/8200-mio-padre.htm

sabato 3 marzo 2012

Ciao, Rob



E’ il giorno di San Francesco, primo sabato di ottobre, che nasce Roberto Dinacci. Un autunno indimenticabile, particolarmente tiepido, addirittura caldo. Nell’aria sembrava serpeggiare una tensione impalpabile e inquieta. Che la terra, ribollendo sotto i nostri piedi, stesse per segnare il futuro della città e non solo, ce ne saremmo accorti il 23 novembre. Al terremoto sarebbero poi seguiti, in tutta l’area flegrea, anni di bradisismo, che avrebbero messo a dura prova la quotidianità di tutti.
A casa, Roberto, insieme al suo gemello, respira i valori di gente semplice e sincera, che crede intimamente nella famiglia, negli amici, nella responsabilità personale, nella generosità. Persone sobrie, misurate, che gli chiedono di costruirsi un futuro all’altezza della sua intelligenza, ma gli danno il senso di un amore che non verrà mai meno. Apprende autonomia e libertà e finisce col vivere ciò gli hanno trasmesso: oltre ogni misura.
A sedici anni, Roberto cambia liceo, raccontando al suo diario: “… mi dispiace molto lasciare i miei compagni a cui mi ero affezionato. Ho passato due anni indimenticabili con loro, che son sicuro non dimenticherò mai”. Confessa che “non so neanche io se quello che sto facendo è giusto o no, e per questo che vorrei confidarti queste cose”, ma ritiene che “in questi casi si deve essere egoisti”. Nella sua classe non si studia abbastanza, non tutti i professori gli sembrano adeguati e lui va cercando insegnanti che “fanno studiare e chiedono un forte interesse degli alunni” perché “devo pensare a far bene un triennio, con professori all’altezza per poter passare nel migliore dei modi l’esame e andare poi all’Università”: “... dovrò sforzarmi per cercare di studiare per il mio bene, per la mia cultura”. E inizia a fare politica. Ricorderà il gemello, Francesco: “Ho deciso di fare politica insieme a Roberto a sedici anni, molto tempo fa, perché nella mia città e in generale nella società c’era un clima fortissimo di cambiamento, ma fortissimo… era la stagione dei sindaci, una stagione bellissima, la stagione seguita a Tangentopoli, la stagione del primo Bassolino, la stagione in cui Bassolino andò a fare il sindaco di Napoli dicendo che andava a scoperchiare le pentole e c’era una rivolta dei cittadini contro il malaffare, in quella rivolta piazzaPlebiscito veniva aperta la città veniva ripulita, c’era il G8, il contrabbando veniva abbattuto…”

A venti anni, Roberto è tra i fondatori della sezione della Sinistra giovanile di Quarto, dedicata ad Enrico Berlinguer, suo grande riferimento ideale: “Noi – scrive in articolo qualche anno dopo – siamo tra coloro che pensano che le cose possono migliorare, tra coloro che hanno scelto un mondo di possibilità. (…)Non ci è mai piaciuta l’idea che la politica servisse a realizzare le proprie personali ambizioni o i propri interessi personali. (… ) a Quarto è ampio e diffuso il bisogno sociale di quei giovani che troppo presto abbandonano gli studi per dedicarsi a piccoli lavoretti pur di guadagnare qualcosa o di quei giovani che trovano rifugio nella droga, e sono condannati all’emarginazione, all’esclusione. E’ qui, che dovremo saper incidere con sempre più forza per poter dare a questi ragazzi la speranza di un futuro migliore.(…)Siamo tra coloro che pensano che la Sinistra debba parlare al cervello e al cuore delle persone. (…) Oggi l’idea di giustizia e di libertà passano dal sapere. La democrazia del futuro passa dalla possibilità di imparare, dalle pari opportunità, dalla scuola pubblica”.

Sempre a venti anni, ormai iscritto alla facoltà di Agraria di Portici, viene eletto nel Consiglio di Facoltà dell’Ateneo come rappresentante studentesco. Nella già citata intervista a Giovani del Sud dirà: «Fui il primo eletto e per me si trattò di una grande soddisfazione, anche perché mi ha consentito, due anni dopo, di essere nominato nel Consiglio di Amministrazione della Federico II .(…) Questa esperienza la considero estremamente importante ed altamente formativa, in quanto mi ha permesso di imparare ad interagire con il mondo della ricerca scientifica, con l’attenzione puntata ai diritti degli studenti e dei ricercatori ed al rapporto tra il mondo accademico e quello studentesco. Fin da subito ho cercato di instaurare un contatto diretto tra gli studenti ed i professori ed in quel momento ho cominciato a conoscere ed a confrontarmi con il professor Luigi Nicolais, che era all’epoca assessore regionale alla Ricerca ed all’Università».

Per le problematiche dell’università e della diffusione del sapere ha una passione profonda: «Dobbiamo affermare con grande nettezza – afferma ad un convegno – la necessità di una grande spazio pubblico della ricerca, della educazione, della formazione, come garante di prima istanza delle esigenze di libertà e di autonomia di cui il sapere ha bisogno per riprodursi ed innovarsi, di cui hanno bisogno le stesse imprese che scelgono per competere la strada dell’innovazione e della qualità. Uno spazio pubblico radicato nel territorio, ma che parla al mondo; le Università, i centri di ricerca, le scuole, possono essere – già sono in molti casi – i luoghi in cui il sapere locale si mescola col mondo, la connessione indispensabile per trasformare in prodotti, in servizi, le idee e le scoperte che circolano nelle reti globali del sapere, e per rendere universalmente fruibili i saperi espliciti ed impliciti che costituiscono l’identità del territorio. Uno spazio pubblico da riaffermare, ma anche da rivisitare e riformare profondamente, se vogliamo interagire col salto di qualità che l’economia e la società del sapere ci propongono. Di fronte al ruolo decisivo che scienza e cultura stanno sempre più assumendo nella produzione di valore economico e sociale, forte è la tentazione per chi produce sapere di ritirarsi negli spazi collaudati in cui l’autonomia coincide spesso con l’autoreferenzialità.
La vecchia società lo permetteva. Lo permetteva la solida divisione del lavoro che distingueva la ricerca di base dalle sue applicazioni tecnologiche e industriali; la scuola per chi è destinato a pensare da quella di chi è destinato a eseguire; la rigida distinzione e gerarchia fra i saperi e le discipline. Gli effetti sul lavoro e sulla vita del proprio essere ricercatori, del proprio essere insegnanti, poteva quasi essere messo fra parentesi.Non è più così, sia per la ricerca, sia per la scuola.E’ proprio il peso crescente che il sapere ha nello sviluppo dei paesi e dei continenti e nella vita delle persone, che mette in discussione l’autonomia come autoreferenzialità; che impone strumenti nuovi di governo del sistema, pena l’essere risucchiati nella pura logica del mercato e dell’individualismo competitivo.Lo spazio pubblico va ridefinito a partire da questi nodi.E’ indubbio che oggi la cultura sta acquisendo un crescente valore economico.
Sia nella produzione, connessa al valore dei linguaggi simbolici, dei fattori immateriali nella produzione delle “cose”; sia nel consumo, per la “sete” di contenuti a cui attingere e da mettere in circolo, della industria della informazione e della comunicazione.Ma questo stesso valore economico può essere salvaguardato solo se viene risolutamente difeso e rilanciato il valore “pubblico” della cultura, il suo essere libero e disinteressato, il suo valore fondamentale per la crescita civile, sociale, politica del Paese.Il nostro patrimonio culturale non può essere ridotto ai beni più immediatamente sponsorizzabili e vendibili, quelli capaci di attivare investimenti privati, isolati dai loro contesti e connessi dalla loro appetibilità e vendibilità.La caratteristica del nostro Paese è proprio la grande diffusione del patrimonio culturale, la ricchezza del contesto in cui le grandi opere sono inserite.La cultura neo-liberista di questo governo rischia non solo di far perdere l’autobus dell’innovazione scientifica e tecnologica al nostro Paese, ma anche di metterne in discussione il livello di sapere, di cultura, di bellezza.La linea politica di chi ci governa ha una sua perversa coerenza.L’affidare all’erosione dei diritti e alla deregolazione il ruolo trainante per competere nell’economia globale, è coerente con il taglio, nella Finanziaria, delle risorse destinate alla ricerca, all’Università, alla scuola pubblica.Le Università si realizzano, fin dalle loro origini, come “comunità del sapere”, istituite e sostenute perché la società ha bisogno di nuove conoscenze, di classi dirigenti aggiornate, i cittadini informati, di competenze tecniche e professionali. Hanno dunque una responsabilità specifica enorme: quella di garantire e promuovere il lavoro intellettuale per la produzione e la trasmissione del sapere. Questa responsabilità diventa missione ed obiettivo; si traduce in guida allo sviluppo socio-economico, e ha come riferimento non solo l’orizzonte internazionale elle varie comunità scientifiche, e quello nazionale dello sviluppo del Paese, ma anche lo specifico territorio in cui l’Università insiste.Altrettanto chiara e coerente, quindi, deve essere la nostra risposta: solo un forte investimento in cultura, in ricerca, in formazione può garantire uno sviluppo di qualità, nei prodotti, nei processi, nei servizi, capace di tenere insieme economia e diritti di cittadinanza, crescita economica e sostenibilità sociale ed ambientale».

«Dinacci – continua l’intervista a Giovani del Sud –  ricorda che tra le prime battaglie portate in seno al CdA della Federico II vi fu la proposta di portare la sede della facoltà di Agraria a Scampia, per “dare ampio risalto ed un vero rinnovamento sociale alle periferie più degradate di Napoli, per sposare in pieno quella che era una idea molto cara all’allora Rettore Fulvio Tessitore”. Nell’esperienza di consigliere di amministrazione Roberto Dinacci comincia a prendere dimestichezza anche con gli aspetti tecnici della redazione di un bilancio complesso quale può essere quello di una delle più grandi ed importanti università d’Italia. E, nell’alternanza fra formazione universitaria ed impegno politico, Dinacci diventa segretario quartese della Sinistra giovanile. «Insieme a molti giovani compagni mettemmo su una sezione molto numerosa, con ragazzi provenienti dalle più diverse esperienze ed estrazioni sociali – continua a raccontare Dinacci – L’intento è stato, fin da subito, non chiudersi nelle stanze del partito, ma uscire fuori, aprendosi anche a ragazzi e ragazze che non erano vicini all’area della sinistra, ma che potevano vedere in noi un punto di riferimento importante. Per questo abbiamo organizzato in questi anni corsi gratuiti di doposcuola ed attivato uno sportello per la consulenza gratuita nella compilazione delle domande per il reddito di cittadinanza. Ho sempre pensato che bisognava dare risposte concrete sul territorio alle situazioni difficili vissute in molti casi dai giovani». La carriera di Dinacci prosegue con la nomina a membro della segreteria provinciale della Sinistra giovanile e, successivamente, alla designazione come responsabile della Sg alla Università ed alla Ricerca scientifica. «Proprio in qualità di responsabile della Sg alla Università ed alla Ricerca scientifica ho avuto modo di conoscere sempre meglio il professor Nicolais – ricorda ancora Dinacci – Con lui abbiamo discusso del problema della mensa e della residenza universitaria di Portici. Nel 2005 insieme a Nicolais ed alla Sinistra giovanile regionale abbiamo messo su il gruppo che si è occupato della Consulta dei Saperi, attivando una serie di gruppi di lavoro».

Un ragazzo di venti-venticinque anni che studi e faccia politica sul serio, ti immagini che il resto del tempo lo dedichi a se stesso. Soprattutto quando è bello come Roberto. Che si è fatto alto, di corporatura perfetta, piedi grandi, mani eleganti. Capelli d’ebano, sopracciglia folte, labbra carnose. Una bellezza raccolta, non esibita. Impreziosita da modi gentili, addirittura timidi. Esaltata da un tono di voce, caldo e profondo, che avvolge l’interlocutore in un calore amichevole, rispettoso e discreto. Ma fatta, soprattutto, della luce particolare del suo sguardo: l’anima che gli brilla negli occhi neri, di seta preziosa e di sontuoso velluto, ha profondità e trasparenze non comuni. Roberto non saprebbe vivere solo per sé.Vive completamente la sua città, conosce tutti, si occupa di ciascuno. Stessa cosa a Portici e nel partito. «Lo vedevi sempre in giro tra un angolo e l’altro del paese, circondato di persone. – scriveranno su un periodico quartese – E camminarci accanto, significava fermarsi ogni tre passi, perché avvicinato continuamente: dai molti conoscenti, amici, collaboratori di partito, che avevano continuamente qualcosa da chiedergli, da proporre, da riferire. Soprattutto i più giovani, gli adolescenti. Quelli che generalmente non vanno d’accordo con nessuno e che in nessuno riescono a identificarsi e che invece, senza sentirsi mai fuori luogo o imbarazzati, in lui riuscivano a riporre sogni e a lui arrivavano a esprimere le proprie idee di speranza, per una vita più serena. (…) A Roberto non sfuggiva nulla. Era premuroso con tutti noi e ad ognuno dedicava il suo tempo, sottraendolo alle sue cose, ai suoi impegni professionali. Non ci ha mai detto di no. Non sapeva cosa significasse il rifiuto. In quattordici anni di amicizia non è mai stato capace di pronunciare questa parola. Probabilmente non l’ha mai utilizzata con nessuno” – raccontano i suoi più affezionati compagni di vita, che confessano di non aver mai compreso tale smisurata disponibilità – “ci siamo domandati spesso perché si sacrificasse tanto per gli altri, per chiunque si rivolgesse a lui. Perché dedicasse tanto tempo ed energie ai ragazzi più piccoli, ai poveri, agli emarginati sacrificando i suoi momenti liberi. Perché se durante una festa, qualcuno lo chiamasse per qualunque motivo, lui fuggisse a soccorrerlo anziché rimandare».
Al bar Reder, in piazza, sul sagrato della chiesa parrocchiale dedicata a Santa Maria, passa molto tempo con ragazzi e ragazzini; gioca a calcio con loro, dialoga, cerca di toglierli dalla strada, li indirizza alla scuola, al lavoro, alla vita di partito come impegno forte per la collettività, prova a far scattare, in ciascuno, il desiderio di diventare migliore, di dare alla propria vita un senso più pieno.
Da ripetizioni, gratis naturalmente; paga bollette, va a fare la spesa da lasciare a tizio o a caio, passa notti in ospedale a vegliare qualche ragazzo che rischia di finir male per droga. Semplicemente. Col sorriso sulle labbra, anzi col sorriso dentro gli occhi. Con quel saluto così suo: “Ciao, caro”: « “Ciao caro” accompagnato dalla serenità dello sguardo, dal sorriso accogliente è per Roberto Dinacci più di un semplice intercalare – scriverà il giornale degli studenti universitari – È un gesto profondamente “Politico” che unisce grandi tensioni e passioni, civili e morali. Un gesto di rara bellezza ed umanità che ci restituisce umilmente una profonda lezione di vita: perdere l’identità individuale per ritrovarla arricchita in una più grande, più inclusiva, più comprensiva, quella di comunità, di essere parte e partecipe. “Ciao caro”: perché mi sei realmente caro, perché sei tu , così come sei. Perché ti riconosco come unico e importante per me. Perché insieme stiamo condividendo un percorso, un pezzo di strada. E non importa che tu lo percorra da scienziato, da politico, da professionista, da ragazzo di strada, da barricadero. Stiamo insieme. E dalla stessa parte con la voglia di rimboccarci le maniche e fare. Senza la voglia di competere, di sgomitare per essere davanti, senza l’urgenza di primeggiare, ma solo quella di collaborare, per realizzare un’idea, possibilmente quella più inclusiva, quella su cui c’è maggior condivisione. Con la tenacia e la testardaggine di dare con continuità un contributo originale, piccolo, grande, scontato ma pur sempre un aiuto e strappare pezzi di futuro e di speranza a questa terra, a queste mani, a queste idee. Confrontandoci, parlando senza sbraitare, rispettando ruoli, tempi, aspettative ma concentrati sugli obiettivi. Accumunati.Per questo ogni momento della mattina, del pomeriggio e della sera si deve essere in comunità, in parrocchia, al ministero, al partito, in facoltà, in piazza…».

Non si nasconde, Roberto, ma una parte della sua vita, quella più a contatto con gli sfortunati e i maledetti della società resta segreta: non avrebbe a chi parlarne, perché nessuno tra i suoi amici e tra i suoi compagni di partito vuole davvero non dico prendersene cura insieme a lui, ma almeno davvero sapere. Ma c’è chi, una, due volte, lo segue, di notte, in quartieri malfamati, per verificare che non stia combinando nulla di strano: e si trova davanti scene da buon samaritano: un politico che i ragazzi li strappa fisicamente alla morte. In casa – come con ogni figlio  esagerato nell’occuparsi degli altri giustamente fa ogni genitore, ben consapevole che solo per l’eccellenza nel bene non c’è perdono –  gli fanno qualche rimprovero.  Lo invitano a prendersi un po’ più cura di sé, dei suoi studi, della carriera. Lui incassa, mette il broncio per qualche ora, ma resta il figlio affettuoso e premuroso di sempre.

Nel maggio del 2006, quando Prodi affida al professor Nicolais il dicastero dell’Innovazione e della Funzione pubblica, la vita di Roberto ha un’accelerazione. Dirà nella più volte citata intervista a Giovani del Sud: «E’ stata per noi tutti una grande soddisfazione. (…) Il ministro Nicolais non voleva lasciare il contatto avviato con il territorio e, per questo motivo, mi chiese di entrare nella sua segreteria particolare, curando l’ufficio del ministero a Napoli. E’ una sfida molto stimolante per portare innovazione nella Pubblica amministrazione, ma anche le nuove tecnologie al servizio dei giovani del Sud, visto che il prossimo 12 marzo il ministro Nicolais sarà in città insieme al ministro della Giustizia Clemente Mastella per consegnare alcuni computer agli alunni della scuola del carcere di Nisida, mentre va avanti il progetto di dotare gli oratori delle chiese di Napoli e provincia di supporti multimediali». E di nuovo, vale il discorso fatto prima: un ragazzo che a poco più di venti cinque anni varca la soglia di palazzo Chigi come membro della segreteria particolare di un ministro, ha molte possibilità, magari anche facendo molto bene il suo lavoro, di cominciare seriamente a pensare a sé, alla propria carriera, a puntare in alto. Roberto si scontra con la farraginosità della burocrazia, con le lentezze delle norme, e cerca di fare, insieme, due cose: servire le Istituzioni e “dare risposte” ad un territorio che non può più aspettare. Un territorio fatto, nella sua mente, non delle frasi fatte del burocratese, ma di luoghi precisi, di persone concrete, di cui conosce bene la fatica, i bisogni, la sfiducia, le urgenze: ne sa i volti, le case, lo scorrere quotidiano delle attività.

Dirà uno dei suoi compagni della segreteria di Nicolais nell’orazione funebre: “Ci siamo tutti, tutti i tuoi colleghi di lavoro, dai centralinisti ai poliziotti della scorta, dagli autisti ai dirigenti, dai collaboratori al Ministro. Ma il tuo vero lavoro era l’impegno per sollevare la tua terra e per questo ci sono qui tutti i tuoi compagni e gli amici di una vita.(…) La miglior testimonianza siete tutti voi; concentrati tutti qui, le più alte espressioni dell’accademia e i ragazzi di strada con mille difficoltà. Un concentrato di eccellenza e di degrado urbano a cui facevi sognare l’emancipazione. Questo era Roberto, un uomo che amava e si immedesimava nelle istituzioni ma che aveva un solo paradigma, in ogni veste: vivere ed essere parte di una comunità.(…) Si perché, forse senza saperlo, nell’affermare ingenuamente che “volevi dare risposte ai territori” celavi a pieno quello spirito che la Costituzione vorrebbe assegnare ad ogni lavoratore pubblico: rendere il proprio lavoro funzionale all’interesse generale. E nel tuo piccolo non sapevi fare altro. Allora avevi una parola per tutti e su tutto. Ma il tuo ultimo pallino era garantire l’accesso alle nuove tecnologie ai più deboli, ma soprattutto, far sì che le nuove tecnologie dessero ai giovani, ai deboli di Napoli, una chance per il riscatto”.

Non è il suo “pallino”. E’ l’opportunità, piccola ma concreta, reale, che il suo ruolo gli offre di dare una possibilità seria di costruzione di un futuro “altro” in luoghi dove lo Stato ha lasciato da tempo il passo all’Antistato (le Salicelle ad Afragola, per esempio, o quell’Arzano che neppure è inserita nel progetto 100Napoli), passando per la Sanità e per Nisida: laboratorio, quest’ultimo di estremo interesse per provare una didattica che dia risposte in ragazzi “di strada”. E Roberto ci si butta a capofitto: lavorando oltre i limiti, “stando” dentro le situazioni, passando molto tempo alla Sanità, a Salicelle, a Nisida, ad Arzano: sciogliendo difficoltà, inventando possibilità inattese, dando slancio a quelli solo arrabbiati, convincendo gli sfiduciati: facendo di se stesso un ponte per avvicinare giovani e adulti, gente per bene e ragazzi per male, i fortunati e i maledetti. La speranza che aveva dato ai singoli o a cui aveva invitato piccoli, a anche grandi, gruppi nell’azione politica ora poteva essere organizzata nei territori e nelle situazioni più difficili: con metodo e con audacia.

Ha un ufficio a Napoli, in Prefettura, Roberto. Un spazio che mi parve irreale nell’unica riunione che mi capitò di farci: “Ma qui, tra i damaschi e i parati della Prefettura, le sedie e i divanetti imbottiti, le bandiere con i fregi dorati alle pareti sembra di essere come ovattati, con i problemi della città tra parentesi rispetto alla bellezza di questo affaccio alla finestra, con davanti Palazzo Reale, il mare, sullo sfondo il Vesuvio, in una giornata di sole. Roberto è uguale, qui come a Nisida.Uno di quei pochi che attraversano tutti gli strati della società, mantenendo lo stesso sguardo pulito, lo stesso tono educato, la stessa voglia di fare ciò che è bene”. Uno elegante, vestito quasi sempre formale – gessati dalle righe sottili o spezzati di classica fattura – che non ci pensava due volte a togliersi la giacca e a dare una mano a portare su, su scalette anguste, i grandi scatoloni dei computer a Nisida. Non è che tutti apprezzino, in segreteria: dicono che fa troppo tardi, lo chiami al cellulare e risponde “sto arrivando” e poi si vede, magari, dopo un’ora. Lui, intanto, macina kilometri per le periferie più disastrate e lì si ferma a lungo a tessere quella relazione tra Istituzioni e cittadini indispensabile a dare a quei territori un altro futuro. E mentre lavora per lo sviluppo collettivo, non dimentica i singoli. Resta l’amico dei suoi amici, quelli con cui è bello fermarsi al bar a prendere un caffè e chiacchierare o, appena possibile, portarsi a casa, per una pizza sul terrazzo. Distribuisce, senza parere, una parte sostanziosa del suo stipendio: c’è sempre qualcuno che ha bisogno di scarpe, o di cibo, o di pagare la bolletta della luce o, magari, l’affitto di un mese. E ci sono i ragazzi della casa famiglia. Che li frequenti, lo sanno in pochissimi, ma neppure i pochissimi sanno quanto tempo ci passa, quante energie ci spende. A chi è ferito dalla vita non basta mai nulla, né in termini materiali né tantomeno in termini affettivi, a dargli il senso di un risarcimento pieno di ciò che gli è stato tolto. Pretendono un’attenzione totale. Ognuno ti vuole completamente per sé. Roberto si da a tutti, come a tutti si da, dovunque: senza contropartite, semplicemente, perché non potrebbe essere diverso da quello che è.
Le difficoltà poste dalla curia napoletana all’allargamento di 100Napoli alla provincia, la vergogna della spazzatura che ricopre Napoli, la crisi di governo. Dagli ultimi mesi del 2007, Roberto va forse maturando, insieme alla decisione di chiudere in fretta con gli ultimi esami che gli mancano per la laurea, un certo distacco dalla politica. O, forse,  prematuramente conclusa la fase ministeriale e perfettamente consapevole che le elezioni saranno perse dal partito di cui pure apprezza fortemente la nascita e il progetto, pensa che il lavoro sociale a tempo pieno possa essere la sua migliore modalità di impegno politico.
Lo fermerà, domenica 2 marzo 2008, a metà Quaresima, in una giornata tiepida e assolata, quasi primaverile, un incidente stradale non lontano dalla sua casa. Come poteva morire Roberto se non in un’ora che poteva essere sua, di riposo, di svago, e che, invece, stava dedicando alla crescita di uno dei ragazzi della comunità? “Nessuno ha un amore più grande di chi da la vita per i suoi amici”, recita il Vangelo: e la morte di Roberto fa parte di quest’elenco. Scriverà un compagno di partito:“… si fa vera politica sfidando i clan della camorra, ma anche dando qualcosa di sé all’altro, meno fortunato nella vita, rinunziando a stare davanti al televisore per un partita di calcio e condividendo qualche ora di vera amicizia e solidarietà. Una persona mite e buona, oltre che intelligente Roberto. (…) Non l’ho conosciuto abbastanza, ma ho visto quei ragazzi della casa famiglia che piangevano in modo straziante. E ho capito chi era veramente”.
Dopo la sua morte, ho iniziato una mia personale “ricerca di Roberto”, raccogliendo il materiale che potevo e pubblicandolo, in gran parte, nei miei due blog. Non è molto. Non è neppure pochissimo. Ho letto, qui e là, frasi importanti, che aprono squarci di luce su momenti della sua vita, che parlano della sua limpidezza e umiltà, della generosità e della tenacia, della forza e della tenerezza. Della timidezza che lo faceva incespicare a volte sulle parole e sulla sua capacità di riprendere il dialogo senza fine. Di lui uomo di partito, ma non di parte, privo di meschine piccinerie,“splendido compagno di dissimulazione ironica, dotato di un’incertezza quasi trascendente…”; di lui“leader… capace di aggregare e di catturare l’attenzione dei ragazzi”. Del “suo desiderio impagabile di una società più giusta”. E ho letto le tante pagine di una ragazza – “Non avrei mai creduto che sarei stata all’ altezza di essere una sua amica , eppure lui la pensava diversamente, credeva in me, in quella che ero e sono! Era difficile per me pensare di potermi legare ad una persona cosi tanto diversa da me, e invece è successo, forse è stata proprio questa la bellezza della nostra amicizia, il non aspettarsi che l’ uno si  accorgesse dell’ altro” – che così lo tratteggia:  “Roberto non era una persona come tante, era un ragazzo (…) umile come nessuno della sua età, con una carriera ricca di anni di studio e sacrifici,una persona a cui non mancava davvero nulla, eppure nei suoi occhi vedevo sempre un velo di tristezza, quasi come se si sentisse incompleto.
Quando vedeva i ragazzi per strada senza una meta, senza un futuro che loro allontanavano sempre più, lui era sempre lì pronto per aiutarli, per farli credere in loro stessi, però dimenticandosi della sua vita. (…)  è difficile far capire con delle parole l’importanza di una persona, è quasi impossibile descrivere Roberto; d’altronde per un UOMO come lui non servono parole”.
A leggere e rileggere tutto il corpus delle testimonianze, quello che mi appare sempre più chiaro è che, se cambiano i particolari – chi lo ricorda in un episodio universitario, chi in una riunione di partito, chi in una discussione sulla cumana, chi nelle risate in piazza, chi in vacanza che rimette ordine nella stanza  – c’è un doppio filo conduttore: che Roberto era, prima d’ogni altra cosa, uno sguardo e un profumo. Fu quello che dissi quando mi trovai, circa un mese dopo la morte, a dover affrontare il trauma di una commemorazione ufficiale. Trauma per il rinnovo di un dolore ancora del tutto sanguinante. Ma anche  di dover dire qualcosa in qualche modo di “definitivo” su una persona che avevo incontrato per poche centinaia di ore, per lavoro. Se in troppi hanno taciuto, tutti quelli che ne hanno e ne continuano a parlare riferiscono di una medesima percezione: quella di aver avuto a che fare con un uomo che spargeva il profumo di un animo speciale, straordinario, che ti guardava vedendoti: cose che, senza quasi te ne accorgessi, ti invitavano a vivere un po’ di più, a osare il suo assioma: “Si può, Maria, perciò si deve fare”.
Non è detto che avvenga. Ciò che è reale è razionale, ma non sempre il razionale è reale con buona pace di Hegel. Ma un giorno o l’altro, questa storia bisognerà pure raccontarla.