venerdì 30 dicembre 2011

Fine dell'Albo dei pubblicisti?


“Una mattina salì all’undicesimo piano di via Cervantes 55 e chiese di parlarmi. Era fresco di laurea ma covava il sacro fuoco: «Posso collaborare alla Voce della Campania? Voglio fare il giornalista». Non era il primo né fu l'ultimo. Tanti giovani napoletani e campani trovarono in quel quindicinale l'occasione per iniziare questo straordinario mestiere. La selezione era accurata e si faceva sul campo, ma alla mia scrivania si presentarono i migliori che potessero aspirare a questa professione, e tutti, senza padrini né padroni, misero sul tavolo la passione e la bravura, che furono le sole ‘raccomandazioni’ che valsero in quelle stanze. L’elenco sarebbe lungo, ne verrebbe fuori la geografia di un bel pezzo di giornalismo italiano. Ne parlo perché è la seconda cosa che mi frulla nella testa e nel cuore da qualche ora, da quando, angosciato, ho saputo che Peppe D’Avanzo se ne è andato prematuramente, fulminato da un infarto mentre pedalava: io me lo ricordavo giocatore di rugby. Non ci fu storia: lui viaggiava in un altro pianeta e ad un'altra velocità. Gli altri erano bravi, alcuni bravissimi, ma riconoscevano serenamente la sua autorità professionale. Si guadagnava quasi niente, ma ognuno buttava il sangue per realizzare la migliore intervista, la scheda più precisa, l'inchiesta più completa, e l'orologio veniva lasciato fuori dalla porta. Quel giornale fu un'avventura straordinaria, il documento della Campania degli anni Settanta”.
Così Matteo Cosenza, direttore, allora, de La Voce della Campania e, ora, del Quotidiano della Calabria in un commosso ricordo di Peppe D’Avanzo, la cui improvvisa morte ha lungamente riportato anche i miei pensieri in quelle stanze di via Cervantes.
C’ero anch’io, infatti, e, tra l’ultima fase di direzione di Cosenza e la prima di Michele Santoro, ho conosciuto Nello Cozzolino, Angelo Russo, Patrizia Capua, Iaia Caputo, Antonella Bianchi,  Daniela De Crescenzo e tanti altri: alcuni diventati famosi, altri che hanno continuato a lavorare nei giornali, magari in maniera più oscura ma con grande serietà, altri ancora che hanno preso differenti vie.
E’ vero, come dice Cosenza, che si potrebbe scrivere a lungo su quell’esperienza. Ed è vero che il grande Peppe spiccava – e non solo per la sua stazza (il portiere di casa mia si insospettì quando venne un pomeriggio  da me insieme ad Angelo Russo per un articolo a più mani: ‘Signò, qui ci sta un tipo strano coi baffi che dice che deve salire da voi…”). Altre affermazioni di Cosenza sono, invece, meno precise; danno troppo per scontata l’equazione bravura uguale raggiungimento di livelli alti di carriera; sorvolano su aspetti importanti, per esempio sullo stretto rapporto tra quel giornale e la vicinissima via dei Fiorentini, sede del Pci.
Darei per certo che Cosenza non ha mai saputo che facevo parte del gruppo (e che altri/e come me ne facevano parte). Ci ero arrivata perché, da qualche piano sotto, ovvero dalle stanze dell’Unità, mi avevano mandato a dare una mano anche su. In qualche modo una forma di volontariato che si aggiungeva ad altro volontariato. Non ne ebbi dei soldi se non qualche minimo rimborso spese; ho, però, ricevuto una scatolona di lattine di pelati (ne erano arrivate un bel po’ in regalo al giornale). Fu un’esperienza notevole, che mi permise di scrivere anche qualcosa di non indecoroso, soprattutto un’inchiesta in varie puntate sul lavoro delle donne in Campania. E di capire non poche cose su come andava il giornalismo nel Sud d’Italia.


Questo post l’ho scritto lo scorso agosto, come omaggio a Peppe D’Avanzo, ma anche come piccolissimo sasso nell’enorme mare/lago/stagno/ del come si diventa o meno giornalisti.
Lo ripropongo perché da qualche giorno il web pullula di ansie e tensioni rispetto ad una norma che abolisce, dal prossimo agosto, l’albo dei pubblicisti. Albo cui io sono iscritta dal lontano 1979 e da cui ho ricavato tre cose:
-         l’obbligo di pagare, ogni anno, una quota all’Ordine e, per un  po’ di anni, anche al Circolo della Stampa;
-         la possibilità di entrare gratis in qualche Museo;
-         il piacere di firmare, come direttore responsabile, per molti anni e tuttora (quando lo produciamo), Nisida News, giornale dei ragazzi di Nisida, attività naturalmente senza risvolti economici e, per una fase più breve, il giornalino della sezione giovanile di un’associazione di volontariato (gratis, naturalmente).
A proposito: di mestiere, come recitano i miei dati anagrafici, faccio l’insegnante. E alla mia professione devo molto, perché i lunghi anni nel carcere minorile mi hanno insegnato tanto sulla vita. Da ragazza, però, avevo due, diversi, sogni professionali, di cui uno era fare la giornalista.
Sono assolutamente favorevole all’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, con relativa eliminazione dei super privilegi di pochi e il sostanziale sfruttamento di tanti. Ma, se ho capito bene cosa la norma imporrà, trovo molto triste non poter più collaborare con oltre dieci pezzi l’anno ad un giornale (cosa che negli ultimi tempi ho avuto il piacere di fare).

Con piccole varianti,  e con il titolo Pubblicisti cancellati? Peppe D'Avanzo in via Cervantes m'avrebbe detto: Maria, ma di che stiamo parlando? questo post si trova su Zoomsud - http://www.zoomsud.it/

martedì 27 dicembre 2011

Isole


L’Etna innevata e fumante, come in questi giorni. O, comunque, sempre, maestosa e affascinante. Nel mare di Morgana.
E la piccola isola. Dei viaggi di Ulisse.
Le isole del mio orizzonte.

la foto è di Benedetta De Falco

lunedì 26 dicembre 2011

Aspra Calabria


Il primo libro che, da ragazza, ho comprato con soldi “miei”, frutto dei regali di qualche anniversario, è stato un testo di Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, uno di quei Laterza grigi cartonati, che poi si sono, via via, accumulati in libreria. Leggendo normalmente prima Il Giorno poi La Repubblica, per me non fu una sorpresa l’Inferno (1992), in cui era inserita anche
l’Aspra Calabria. Ma le inchieste “meridionali” di Bocca, l’“Aspra Calabria” in primis, mi diedero un’amarezza particolare, la stessa che qualche mese fa mi ha provocato anche la prefazione di Eugenio Scalfari alla ripubblicazione di quel testo da parte di un editore calabrese. E, questo, certo, non perché Bocca denuncia(sse) dei “mali”, ma perché quei mali rimanda(va) non a problematiche economiche, politiche e sociali da affrontare una ad una ed in blocco, bensì le riferiva ad un “male oscuro”, uno stigma che i calabresi porterebbero nella loro natura.

Quanto male ha fatto alla Calabria Giorgio Bocca, giornalista famoso e potente in grado di influenzare le valutazioni altrui, con i suoi giudizi superficiali e supponenti?

(Ben altra cosa sarebbero state valutazioni taglienti come lame affilate di un coltello d’amore che serve a tagliare bubboni, per ri-dare salute)

sabato 24 dicembre 2011

Le crespelle della Vigilia


Quella Vigilia, nessuno la dimenticò. Di quelli che si salvarono, s’intende.
Le grandi gistre di crispelle, con lo zucchero, con l’uva passa, con la ricotta, col baccalà e con le alici, s’erano tutte svuotate. Il vino aveva accompagnato chiacchiere e balli tra zii e cugini dalle parentele intrecciate. Era quasi l’alba quando la padrona di casa, donna Francesca, aveva salutato cognati e nipoti con piglio allegro: “Ndi vidimu tutta ‘a cumpagnia a Capudannu,”. Saverio, marito di Maria, figlia di una sorella di suo marito, aveva risposto: “Si vidi cu c’è”. Lui non lo sapeva, ma non ci sarebbe stato.
Alle 5.21 del 28 dicembre 1908, 37 secondi d’inferno, seguiti da alcuni secondi di onde alte fino a tredici metri, fecero sprofondare la parte più costiera di Pellaro, uno dei 461 paesi del reggino distrutti dal terremoto, a cinquanta metri sotto il livello del mare. (Fino a pochi anni fa le mura venivano incontro alle prime bracciate nell’acqua).
Saverio, con un carretto tirato da un asino, stava portando un carico di bergamotti sulla strada di San Giovanni. Terremoto e maremoto lo sorpresero a Macellari. Cercò scampo scendendo verso la strada Nazionale, ma venne più volte sbattuto contro un ficodindia dalle onde che, superata la ferrovia e la strada, erano giunte fin là. Non si trovò una sega per amputargli la gamba spezzata e morì qualche giorno dopo di cancrena mentre il mare, di nuovo calmo, si riempiva di navi, cariche di medici e di medicinali.
“’Din ‘sta rua c’è ‘na bella rosa/ch’apparteni a mia/si caccarunu putrendi cosa/mi veni mi parra ‘cu ‘mia”. Dodici anni dopo, nella rua di donna Maria – che aveva preso un nuovo marito da cui aveva avuto altri due figli – Giovanni, bello, bruno e fiero, ‘iettava ‘u capudannu, con una combriccola d’amici, ritmando il canto su triangoli di ferro battuti. L’ultimogenito di donna Francesca, che la mattina del terremoto aveva disincastrato il padre, Santo, dalle macerie che lo coprivano fino al collo, era da poco tornato dall’America, dove aveva lasciato in una tomba il più caro dei suoi fratelli, morto in miniera.
Per primo si alzò don Carmelo, il tutore della primogenita di don Saverio (la seconda era stata affidata ad un’altra zia), e diede una voce a donna Maria e a suo marito Diego, nella casa a lato: “Presto, che fate ancora a letto?”. Donna Maria si rassegnò ad alzarsi, la porta fu aperta e i giovani invitarono le donne a ballare. La prima a uscire nel ballo fu zia Serafina. Alta, coi capelli ricci, gli occhi neri e le labbra carnose, la moglie di don Carmelo era la più bella della contrada. Ballò anche donna Maria e nelle giravolte della villanella, anche lei che non aveva mai un sorriso sul volto duro, sembrò bella. Giovanni si rivolse a Cilla: “E voi non ballate?” e la prese per un braccio. “Non so ballare” rispose Cilla, bionda e sottile, arrossendo. Nello spiazzo davanti alle due case, sotto la luce della luna i suonatori continuarono a strimpellare fino al mattino.
Quando don Carmelo fidanzò Cilla ad un cugino, benestante e scemo, d’un altro ramo della famiglia, Giovanni le mandò un biglietto: “O ti decidi o me ne torno in America”. La fuga non fu una cosa difficile. Tra le loro case c’erano solo pochi metri di strada, tra gli alberi di bergamotto e gli oleandri. Quando Cilla uscì verso il tramonto, l’aria era quieta e all’orizzonte le montagne della Sicilia apparivano come una nuvola grigia e rosa. Giovanni l’aspettava a metà strada, dove il vallone si faceva più piccolo per via dei rovi selvatici che vi crescevano. In un minuto furono a casa da don Santo e donna Francesca. “Finora – disse don Santo – sei stata parente. Ora sei figlia”.
Non c’erano soldi per la carrozza e al municipio e in chiesa, a sposarsi, andarono e tornarono a piedi. Ma, la notte della Vigilia, le gistre si riempirono di crispelle, con lo zucchero, con l’uva passa, con la ricotta, col baccalà e con le alici.

giovedì 22 dicembre 2011

Chi forma i professori


“… sono convinto che è lo studente che forma il professore”.
In un’intervista “alfabetica” concessa al Corriere del Mezzogiorno per i suoi ottanta anni, Biagio De Giovanni* svela piccole sorprese – non sapevo del suo amore per il gatto Katamì-Ciottolino “ un compagno straordinario di straordinaria ostinazione esistenziale. E’ un animale filosofico che segue i principi della libertà e della legge. Un Socrate con la coda” né per le zeppole “enormi, anzi ciclopiche, soffici, bollenti, coperte di zucchero” dello Chalet Ciro a Mergellina – e dice, come sempre, tante piccole cose intelligenti sulla politica e dintorni. Per esempio, sui partiti, “che sono finiti e non rinasceranno. (…) Quando ognuno sta a casa sua e si collega a internet vuol dire che quella comunità di vita che i partiti di massa rappresentavano è definitivamente chiusa”. E sull’emergenza: “Ne siamo tutti coinvolti, e per me implica qualcosa che mi tocca intimamente, avendo per anni messo l’Europa al centro della mia attenzione. E oggi l’Europa è avvolta in un circuito molto negativo, addirittura dissolvente”. E sull’insegnamento, come da frase citata all’inizio, che condivido in pieno.
Dal mio particolare angolo visuale, gli anni scolastici si distinguono in meno e più difficili.
Nei primi, sembra che un vento leggero sostenga l’andare avanti. Nei secondi, la tempesta dei giorni fa imbiancare i capelli, ma lucida i pensieri.

*tantissimi auguri, prof.

mercoledì 21 dicembre 2011

La scrittura cambia


“La scrittura è creazione e apprendimento. Scrivendo e vivendo si cambia. Se iniziassi adesso questo romanzo lo scriverei in maniera diversa. Però rispetto la scrittrice che sono stata e rispetto la mia opera così come è”. Così Maria Barbal, qualche tempo fa, per la pubblicazione in italiano del suo Come una pietra che rotola (più di cinquanta ristampe in catalano).
Rileggo cosarelle scritte negli ultimi tre anni. Faccio un po’ d’ordine tra quelle che possono ancora “rimanere” e quelle che da “cestinare”. Mi accorgo di quanto e di come, soprattutto attraverso queste ultime, è continuato – proseguito e/o cambiato – il mio cammino.l

la  foto è tratta da fb

lunedì 19 dicembre 2011

Il centrino, le doppie e le vocali

Non le riusciva proprio quel centro. Leggeva le spiegazioni e riprovava, ma niente. Alla fine, ci aveva rinunciato. Una sera, alla tv, in uno di quei quiz ascoltati in sottofondo, la domanda finale fu: “Qual è la domenica che precede la Pasqua?”. “La domenica delle Palme”, rispose il concorrente. Donna C., che non aveva mai perso una Messa in vita sua, alzò la testa dalla coperta che stava completando e, rivolgendosi al marito seduto sul divano con vari cuscini a fare da poggia testa, disse con assoluta sicurezza: “Questo ha perso i soldi. E’ la domenica in Albis”. Quando il presentatore annunciò festante che il concorrente, avendo azzeccato la domanda, aveva vinto parecchie decine di migliaia di euro, le si era (ri)aperto un mondo. “Accavallate il punto in quello precedente”, non voleva dire, come lei pensava, “in quello di dopo” bensì “in quello di prima”. Andò a riprendere giornale, filo e uncinetto. Dopo una settimana, chiunque entrasse in quella stanza non poteva che ammirare il più bel centro che avesse mai visto.
Donna C. – che aveva la sapienza filtrata da una riflessione costante sui fatti e le persone tanto affinata da consentirle uno sguardo di conoscenza preveggente – da piccola era andata a scuola solo per due anni (c’era molto da lavorare in campagna e le femmine era meglio che non si mettessero troppe parole in testa) ma aveva centuplicato tutto quello che, nel tempo, aveva assorbito da alcuni maestri e maestre, variamente incontrati/e.
Quando doveva usare a penna – una ricetta sentita in tv, per esempio – ripensava ancora ad un parroco di oltre mezzo secolo prima: “Quando scrivi, tieni a mente come parli. Quando le nostre parole finiscono in i, in italiano finiscono in e: pani si scrive pane; le u sono o; quando diciamo: chi boi? Allora devi mettere la vu: che vuoi?”. Così diceva don Q., quando faceva lezione sulle doppie da togliere, sulle ‘nd, ‘nda che diventano nel, nella. Uno dei fratelli di C. e altri suoi coetanei, terrorizzati dal compito d’italiano, presero buoni voti ad un concorso che temevano impossibile e si sistemarono: “Nessuno ce l’aveva mai detto. Io ancora ora ci penso a che devo togliere o cambiare, se scrivo qualcosa…”.
D’aspetto imponente, voce tonante e di modi decisi, uno sguardo che faceva tremare i fedeli – “tre erano le autorità, in paese, il maresciallo, il medico condotto, F., e lui” – don Q. conobbe anche la galera, per il fallimento della cosiddetta “banca dei preti”. Diventato cieco per le schegge finitegli negli occhi nel corso di un bombardamento del seminario, per anni, fino alla morte, celebrò tutti i giorni l’unica Messa che sapeva a memoria.
E memoria meritano, comunque, quelle sue esercitazioni di traduzione simultanea, quelle sue lezioni, che definirei di Linguistica applicata.

sabato 17 dicembre 2011

Francesco Azzarà, "Reggio Calafrica" e la "buona educazione"


Quand’ero piccola, dalle mie parti, i motticiani erano quello che per decenni sono (stati) in tutta Italia i carabinieri: fonte inesauribile di centinaia e centinaia di storie, motti e prese in giro: soggetti-oggetto permanente di barzellette. Da quest’estate – l’ho scritto tre mesi fa su Zoomsud e l’ho riscritto stamattina –
per tutta Italia, Motta – col suo castello a forma di nave con la prua rivolta alla montagna e la poppa al mare – è il luogo dove è nato Francesco Azzarà.

La sua liberazione è tra le poche belle notizie di questi ultimi tempi. I quattro mesi, dal momento del suo rapimento il 14 agosto ad oggi, sembrano decenni, per i cambiamenti vissuti nel frattempo dal Paese.

Dove l’altro ieri, un presidente di una provincia del Nord ha parlato di “Reggio Calafrica”: espressione che non sarebbe male, per esempio, per titolare qualche bel festival culturale, ma che ha, invece, evidenti sottofondi di irrisione per la Calabria e per l’Africa.

Mi impressiona l’involgarimento crescente del Paese – il web, se è una grande possibilità di far rete nel positivo, evidenzia, promuove, esalta anche gli umori peggiori – freno alla crescita e motivo di debolezza non meno della criminalità organizzata e della crisi economica.

In un frangente storico drammatico – il momento peggiore della nostra storia recente dopo l’ingresso nella seconda guerra mondiale - in cui il Paese, per esistere ancora, ha bisogno di tirar fuori il meglio di sé –– ci servono piccoli, grandi, maestri. E  tanta, tantissima,“buona educazione”.

venerdì 16 dicembre 2011

I "Racconti per Nisida e l'Unità d'Italia" vincono il Perelà


“Per aver affrontato senza retorica un tema così complesso come la reclusione e per aver unito l'esperienza diretta del carcere con l'abilità narrativa degli autori coinvolti. Il risultato è un libro coraggioso, sincero, che ricostruisce il senso di umanità dei carcerati e dei protagonisti che hanno portato all'Unità d'Italia restituendoci le loro emozioni più autentiche”.
Con questa motivazione, i Racconti per Nisida e l’Unità d’Italia – autori: Riccardo Brun, Maurizio de Giovanni, Antonella del Giudice, Mario Gelardi, Antonella Ossorio, Angelo Petrella, Luigi Pingitore, Patrizia Rinaldi; copertina di Cecilia Latella; edito, fuori commercio da Mario Guida – vince l’edizione 2011 del Premio Perelà, assegnato dalle Scuole di Scrittura Holden di Torino, Montanari di Milano, Tobagi di Venezia e Lineascrittura di Napoli.
In quanto curatrice, mi felicito con gli autori e con tutti coloro, in particolare il direttore di Nisida, Gianluca Guida, e la dirigente scolastica della scuola Sogliano, Rossella Baffa, che hanno favorito l’incontro tra i nostri alunni e alcuni scrittori, che già da tempo collaborano con noi. E rinnovo la mia profonda stima al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha voluto onorare questo nostro lavoro della Sua attenzione.
E mi auguro che sia di buon auspicio il fatto che la comunicazione di questa vittoria – che arriva dopo il secondo posto ottenuto, domenica 11 dicembre, nella sezione narrativa della VI edizione del Premio di poesia Città di San Giorgio – sia avvenuta stamattina, a poche ore dalla presentazione, al Centro Studi di Nisida, de “La giusta parte” a cura di Mario Gelardi, edizioni Caracò. I diritti d’autore del libro sono stati, infatti, devoluti ad un progetto culturale per i ragazzi di Nisida.

giovedì 15 dicembre 2011

Se cercate un buon libro..

Rock sentimentale di Patrizia Rinaldi
Non gli succede mai, ma se qualcuno lo chiamasse col suo nome, Antonio non si volterebbe. Fin dall’ultima classe delle elementari tutti lo chiamano Moo – Io mi chiamo Moo, perché faccio le cose dopo o non le faccio. Rispondo: ‘Mo’, adesso, in napolitan. – E se insistono – Moooo!– Frequenta, senza particolare infamia e senza alcuna lode, le superiori e cammina per la periferia di Napoli immaginando di essere a Londra. Suona il basso e canta in una band metallara, chiamata, senza nessuna precisa ragione, R.U. Ha molti amici: tra tutti, il suo preferito, è Pisolo, che la sera lavora nella pizzeria dei suoi e ha sempre sonno. E una sorella, dai folti capelli ricci e biondi, che si chiama Maria Stella. Rispondo sempre così, quando mi dicono: ‘Sei la sorella di Moo?’ ‘Mi chiamo Maria Stella’. Studia molto, legge tantissimo, colleziona parole difficili, cerca termini sempre migliori e più articolati, per raccontarmi le idee e le suggestioni, è segreta e più saggia della sua età e difende da tutti, insegnanti compresi, il suo essere com’è. Moo e Maria Stella hanno una madre, Mau –Mau sta per Mena Assunta (prima nonna) Umberta (seconda nonna) – che, pur  ancora affannata da antichi guai – una carriera di cantante lasciata a metà, una sorella morta – tutto sa e/ o intuisce della vita dei figli e un padre che si vede poco.
Sono i protagonisti di Rock sentimentale di Patrizia Rinaldi, tra qualche giorno in uscita per le edizioni El. Un libro “dai quattordici anni in su”, che, come ogni gran “libro per ragazzi”, è godimento puro per giovani e adulti: i primi che ci si ritroveranno, i secondi che li scopriranno in una luce più autentica. Un equilibrio perfetto tra freschezza della storia e inventiva di lingua, condensate in una luminosità di scrittura cui corrisponde  una felicità di lettura. Una costruzione narrativa perfetta, senza artifici e senza apparente sforzo: come se il testo fosse germinato “naturalmente”, da solo.
Una famiglia normale nella sua “diversità” – la grande narrativa, come la vita, sa bene che non esistono “tipi”, ma solo specifici individui/personaggi – così descritta da Maria Stella: A Moo non è piaciuta la mia idea, a me non piace il canto di mia madre, mio padre ha da dire su tutta la comitiva. Perfetto. Nel profondo del mio cuore, giù in miniera molle, tuttavia so che ci amiamo con correnti marine vivaci di caldo e freddo. Le correnti formano vortici e così ogni tanto ci portano verso il pavimento del mare e ci lasciano senza fiato. Nondimeno, bello nondimeno, sul pavimento del mare, si possono trovare monili (ornamenti di oro o di gemme), conchiglie sane tra quelle fratturate, resti umani, velieri, testimonianze del passato agghindate talvolta persino con coralli rossi.
Una città ben precisa, anzi una “zona”, la Napoli della periferia occidentale, quella che affaccia sull’ex Italsider,  non ha, tuttora, riguadagnato completamente il mare e prende la metropolitana per andare “al centro”. Un luogo in cui la criminalità organizzata è un pericolo riconosciuto come sempre incombente, ma sapendo bene che non è né l’unico male né l’unica realtà, anzi che può talora essere usata come alibi per  altri guasti.
Il crescere – con quello che davvero conta, la famiglia, la scuola, le relazioni con gli amici, i primi amori, le prime scelte. Un romanzo di formazione, come giustamente è qualsiasi storia (buona e bella, vorrei dire, o, per lo meno, non distruttiva) che riguardi adolescenti. Dove le vicende che colpiscono l’amico del cuore fanno ridefinire caratteri, posizioni, relazioni di tutti i personaggi: a cominciare, naturalmente, dallo stesso Pisolo, che si riapproprierà anche del suo vero nome, Sergio. Crescono tutti i protagonisti principali, in questa storia, madre compresa ed è gradevolmente evidente come, se i genitori, oltre ogni scelta consapevole, educano i figli a loro immagine e somiglianza, i figli, a loro volta, educano i genitori (in entrambi i casi vale, pare, soprattutto, per le madri).
Libro intelligente, ironico, profondo con levità, questo Rock sentimentale di Patrizia Rinaldi, dove la quotidianità, con le sue ripetizioni e le sue scoperte, le sue noie e le sue accelerazioni, diventa avventura decisiva della vita. Perfetta la psicologia dei personaggi, che sanno di vita vera: tutti, anche quelli minori.
Splendido il linguaggio, che meriterà un approfondimento a parte: qui, il lessico familiare, il gergo giovanile della periferia occidentale napoletana, l’inglese delle canzoni, il dialetto, la lingua forbita di Maria Stella, i nomignoli che concentrano stratificazioni di senso diventano la lingua vera, l’unica che i personaggi potrebbero parlare e in cui formulano pensieri: ma con una brillantezza, una icasticità, una freschezza e veridicità, una dirompente allegria che solo una bellissima elaborazione scritta può dare. Ancora una volta, per la Rinaldi, dopo Pianoforte, un testo “musicale”: che ha il ritmo della vita quando il “comunque” riesce, con discrezione, pudore ed eleganza dell’anima, ad abbracciare tutti i movimenti dell’essere.

La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi
La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi, edito da Einaudi, è il romanzo del Novecento calabrese. Se il panorama editoriale italiano si arricchisce di un libro di grande spessore narrativo, scritto con lo stile asciutto di una formidabile maturità espressiva, la Calabria trova, nelle pagine di Gangemi, la voce giusta per raccontare il suo ultimo secolo, facendone, insieme, grande letteratura e memoria ineludibile.
Gangemi realizza, in questo suo libro, il miracolo che riesce compiutamente a pochissimi scrittori che affrontano vicende con forti elementi autobiografici: quello di non far emergere le passioni e gli umori della cronaca attuale, ma di raccontare il passato nella sua essenzialità: con sguardo scevro di rimpianti e di rimbrotti, di rivendicazioni e di rimpianti.
La saga contadina della sua famiglia diventa così il cammino aspro e doloroso, pieno di sacrifici e mai da protagonisti, che strati popolari hanno fatto in Italia, a Sud come anche in alcune parti del Nord, per uscire dalla povertà, istruirsi, cercare strade che gli consentissero di “scegliere” e non “subire” il loro “destino”. La signora di Ellis Island è per questo il libro che nettamente più e meglio rappresenta il cammino dell’Italia unita in un momento in cui l’editoria sforna molti romanzi sui centocinquanta anni della nostra storia unitaria.
Attraverso l’emigrazione – dramma e opportunità di accumulare piccole “ricchezze” – la tragedia delle due guerre mondiali con l’annessa avventura coloniale italiana, si snodano le vicende dei tanti personaggi del libro: i loro rapporti familiari, i matrimoni e le nascite; il legame con la terra; l’aderenza alla fede religiosa e l’attenzione alle “magarie”, la sostanziale estraneità ai partiti e alle vicende politiche; la difficile conquista del saper leggere e scrivere; la lentissima modificazione, grazie in particolare all’istruzione, della posizione di subordinazione delle donne. Personaggi, uomini e donne, tutti di grande verità: esistenziale e narrativa.
Romanzo di solido impianto e di stile cristallino, scevro da qualsiasi ammiccamento verso il lettore, scritto per l’intima esigenza di rendere il giusto tributo agli avi e per riannodare il presente a coloro che ci hanno preceduto, La signora di Ellis Island è tra i pochissimi libri di questa dozzina d’anni di nuovo secolo su cui si può scommettere che resteranno.
Arrivati d’un fiato a pagina 619, resta il magone che prende quando un gran libro finisce e un senso di pena perché i passi avanti sono stati pagati a prezzi carissimi – a partire dall’abbandono delle campagne. Ma, anche, una grande serenità: se la Calabria può raccontarsi così, ha energie per costruire, nonostante tutto, nuovo futuro.


martedì 13 dicembre 2011

Ti piace il presepe? Sì, mi piace il presepe


La lavandaia, certo. Avevo già dieci anni e al mio paese si lavava ancora in una vasca comune ad un crocicchio di strade, insaponando i panni sul lavello ondulato di granito e lì si abbeveravano le mucche e l’asino di ritorno dal suo lavoro. (Ho sempre amato gli asini; da bambina ci salivo in giardino; un pomeriggio d’estate, per gioco, uno mi afferrò dalla gonna nuova e mi fece un’altalena su e giù).

E il pastore. Ma, in campagna, non ne ho mai visto uno addormentato a bocca aperta sotto qualche albero, piuttosto lo incontravo scendere la fiumara per portare tutto il gregge, i capri, le pecore madri dalla lana beige, gli agnellini tenerelli, verso il mare. Borbottava, in dialetto, qualcosa come: “E’ dall’alluvione che non c’è una pioggia come si deve”.

E, poi, il contadino con il suo paniere di frutta e verdura in mano, con le mani callose e la giacca di fustagno liso. E la massaia con le sue galline, che conosce ad una ad una e parla a Rosina e a Bianchina con scontrosa tenerezza.
E l’arrotino, che somigliava a mastru don Giuvanninu, che forgiava le zappe e lavorò fino alla morte, fermandosi solo per una pesante influenza: “Non haiu putiri né mi lavuri né mi mangiu”. (non ho la forza né per lavorare né per mangiare).

E le botteghe di carni, salumi, formaggi come, da più grande, ho scoperto a Napoli. (Mi ritrovai ad una mostra, in villa comunale forse, sui pastori di San Gregorio Armeno, una trentina d’anni fa, e mi chiesi dove mai fosse questo paesino, se sarei riuscita a raggiungerlo per scoprire, poi, che si trattava di una via dentro la città).

E il pozzo e il laghetto fatto con un piccolo specchio e, in anni più recenti, con la carta d’argento, con le papere, le oche, i sassolini intorno.
E la faccia nera di uno dei Magi. Non c’era la televisione quand’ero proprio piccola e La capanna dello zio Tom l’avrei letta dopo alcuni anni: che ci fossero persone d’altro colore lo appresi nell’armonia del presepe.
E tanto muschio preso dalle armacere del giardino. E sulle armacere e sui giardini, i ricordi sono troppi da dire.

Mi dispiace di non aver mai saputo fare un presepe che fosse, esteticamente parlando, più che un “mettere i pastori a passeggio”. Perché, a me – ho una vera devozione per l’Eduardo di “Natale a casa Cupiello” – il presepe piace. Ogni presepe. Tutti i presepi. Che riportano alla pace calda e luminosa degli sfondi blu notte fitti di stelle della mia infanzia, curvati a custodire, con l’incanto d’una nascita speciale, l’essenza della vita.

domenica 11 dicembre 2011

I tramonti reggini di "Ed è subito sera"


Non so se esista orizzonte più bello di quello reggino. Per quanto, direttamente e indirettamente, ne conosca di belli e, anche, di bellissimi, direi di no. Quell’insieme di acqua, cielo, terra, di liquidi arcobaleni e diamanti soffusi nell’aria, di antichi profumi e di silenziose musiche che sembrano far ponte tra la propria anima e l’Anima del Mondo. Che è negli occhi, della mente e del cuore, dei reggini. Di quelli (chiaramente) capaci di vedere. Per sempre. Dovunque siano. E non può, quell’orizzonte, non colpire profondamente chi a Reggio passa del tempo ed ha sguardo per respirare l’infinito. Anche se è siciliano e, per anni, ha già visto quello stesso Stretto dall’altra parte: al contrario.

Non ho nessuna prova, ma sono convinta che nel “trafitto da un raggio di sole” quasimodiano ci sia anche l’esperienza dei suoi anni reggini. E di questo ho scritto oggi su Zoom: http://www.zoomsud.it/index.php?option=com_content&view=article&id=25121:siete-sicuri-che-in-esubito-sera-non-ci-sia-anche-lesperienza-reggina-di-quasimodo&catid=74:commenti&Itemid=75

Contenta, anche, del fatto che proprio oggi, su Zoom, ci sia un bellissimo pezzo di Nadia Terranova, che ha
passato anni a vedere Reggio da Messina (cosa che a me è capitata solo negli anni dell’università): http://www.zoomsud.it/index.php?option=com_content&view=article&id=25144:dallaltra-parte-di-trinacria-guardare-la-calabria-e-il-mondo-da-messina&catid=74:commenti&Itemid=75

sabato 10 dicembre 2011

‘Un poviru e ‘u iutatu

‘Mari Mariuzza, dopo anni e anni di lavoro senza respiro, da vecchia, passava ormai la giornata dicendo rosari su rosari, litanie e giaculatorie, e ripetendo: “Signuri, ‘iuta ‘u ‘iutatu cchu poviru è ‘mparatu”, ovvero: “Signore aiuta il ricco (che è già abbondantemente “aiutato”) perché il povero ha già imparato a cavarsela, ad affrontare la vita col poco o anche col niente”.
In fondo in fondo anche il detto “puru ‘a riggina avi ‘bisognu ‘ra vicina”, invita sì ad atteggiamenti moderati per i più abbienti, indicando che, anche in condizioni di ricchezza economica e di preminenza sociale, si può aver bisogno di chi non è, né economicamente né socialmente “pari”. Ma, appunto, è la “regina” che viene aiutata dalla “vicina”, non il contrario.
Saggezza popolare, che i tempi di crisi squadernano ampiamente.
N. B.: Non ho alcuna intenzione critica nei confronti del governo Monti, che, anzi, ritengo assolutamente doveroso sostenere nello sforzo di non far cadere il paese nel baratro, anzi di fargli ritrovare una strada di futuro possibile.

venerdì 9 dicembre 2011

Quando non c'era il telefono

C’è stato un tempo in cui non c’era il telefono. Non millenni fa. Semplicemente, fino all’inizio degli anni sessanta. A casa mia, il telefono arrivò nell’autunno del 63 – epoca indimenticabile per molte ragioni, a partire da quel telegiornale serale che ci precipitò nell’orrore dell’uccisione di John Kennedy – e divenne ben presto un bene collettivo. Nel senso che i vicini di casa, che ancora ne erano sforniti, facevano capo a noi per comunicazioni importanti: cosa che mi dava, talvolta, ruolo di postina nell’andare a riferire di chiamate di questo o di quel parente. Nelle occasioni solenni, poi, c’era il rito delle telefonate ai familiari sparsi per l’Italia, con relativa pre-chiamata al centralino e possibilità di parlare, magari, qualche ora dopo. La teleselezione, la possibilità di parlare con qualcuno senza un intermediario – siete in linea – sarebbe sembrata, in seguito, un miracolo.

N. era, a quel tempo, colono del cavaliere M. E venne pure lui, un giorno, a fare un telefonata. Non so quale fosse l’argomento della conversazione, inframmezzata da continui: “Si, cavaleri”, “Comu riciti vui, cavaleri”, “Aviti ragiuni cavaleri”, pronunciati con voce ossequiosa, piegandosi in avanti come per un mezzo inchino e portando ogni volta la mano alla coppola, come per un reverente saluto. Ma, nell’adagiare la cornetta, il commento fu di ben diverso tenore, facendo riferimento a precise parti anatomiche del suddetto cavaliere. Che la cornetta non l’aveva ancora posata, per cui sentì. E non gradì.

giovedì 8 dicembre 2011

Ricomincio da qui


‘Mpari Mico – raccontava mio nonno al braciere – morì all’improvviso. Era un gran lavoratore ma non aveva potuto lasciare molti beni ai tre giovani figli. Un giorno, ‘mpari Cola incontrò il più grande dei tre. “Come state, ora che non c’è più il vostro povero padre?”. “Quando ‘u maru padri era vivu, ivimu sempri arrerru, arreru. Ora ch’’u maru padri è mortu imu sempri avanti, avanti”. La risposta sembrò strana a ‘mpari Cola, che, per quanto ci pensasse, non riusciva a capacitarsene.
Qualche giorno dopo, incontrò il secondo dei fratelli. Stessa domanda e stessa risposta. Così avvenne col terzo. Allora, non si trattenne più e chiese: “Ma come può essere che, quando vostro padre era vivo andavate avanti e ora andate indietro?”
“Quando viveva mio padre, il bene non ci mancava. Avevamo legna e facevamo un braciere grande. E la sera, a poco a poco, ci spostavamo con le sedie più indietro per non sentire troppo caldo. Ora abbiamo poca legna e facciamo un braciere piccolo. E, più si fa notte e più freddo abbiamo, e più ci avviciniamo con le sedie per cercare un po’ di calore…”.
Nell’ “inverno del nostro scontento” – in cui la crisi economica gelerà certo più della temperatura (è di questi giorni la conferma che il clima reggino è il migliore d’Italia) una regione così poco ricca come la Calabria – ci sarà qualche braciere al quale quelli che stanno peggio potranno avvicinarsi?

Questa mia storiella, pubblicata da Zoomsud qualche giorno fa, ha emozionato alcune amiche, commosse anche d’aver ritrovato, nella foto d’accompagnamento, la “rota” o la “conca” dell’infanzia, che contenente non un vero braciere, ma un lavamani riciclato e, per ravvivare il fuoco, niente più d’un vecchio cucchiaio.
Strano Avvento, questo, con i dolori privati acuiti da questa cappa di preoccupazione collettiva che sembra identificare il futuro con il baratro. E in cui diventa essenziale Resistere e Ricominciare.

Per alcuni errori, moltiplicati da annessi e connessi, i miei precedenti blog sono evaporati. Forse, era un casuale e/o provvidenziale invito al silenzio. In ogni caso, invece, ricomincio da qui.